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mercoledì 11 giugno 2025

Su quali basi si costruisce una accettazione silenziosa di un genocidio

Gaza, 2025. La Striscia è sprofondata in una catastrofe umanitaria di proporzioni bibliche. Oltre 50.000 palestinesi hanno perso la vita (dati ufficiali, ma sicuramente siamo a cifre mostruosamente più alte) e circa 120.000 sono rimasti feriti nel massacro che Israele ha messo in scena dal 7 ottobre 2023. Risultano sfollate 2 milioni di persone - praticamente l’intera popolazione - e intere porzioni del territorio sono state rase al suolo. Città come Rafah semplicemente sono state cancellate dalla mappa.


Un massacro. Eppure l’indignazione internazionale resta attenuata, intermittente, anestetizzata, impassibile. Perché?
La dissonanza cognitiva è quel malessere psicologico che insorge quando credenze e realtà confliggono. Nel caso della Palestina, chi da un lato crede nei diritti umani universali ma dall’altro supporta o giustifica le azioni militari indiscriminate di Israele, si trova in una tensione interna. Per ridurla, inconsciamente può attuare scorciatoie (bias) mentali: ad esempio convincersi che "in fondo Hamas usa i civili come scudi umani, quindi quelle morti non sono colpa nostra", oppure che "è una guerra al terrorismo, i civili sono vittime inevitabili". Si sposta cioè l’attenzione dalla sofferenza umana al quadro narrativo che la giustifica. 
Un ruolo rilevante lo gioca anche il bias empatico di gruppo. Studi neuroscientifici hanno dimostrato che gli esseri umani provano più empatia per chi percepiscono come simile o appartenente al proprio gruppo, mentre l’empatia cala verso l'altro, soprattutto se intervengono paure e pregiudizi. In situazioni di conflitto etnico-nazionale, i media e la propaganda enfatizzano le differenze, seminano paura dell’altro (dipinto magari come fanatico o terrorista), con l’effetto di ridurre biologicamente la nostra capacità di provare compassione. Nei media occidentali, la sofferenza del popolo palestinese è filtrata attraverso tecniche comunicative che riducono o omettono:  si parla di "conflitto", "operazione militare", "risposta difensiva", non si dice "massacro", "occupazione", "pulizia etnica" e così il lessico anestetizza l’orrore. Le vittime israeliane vengono descritte come "brutalmente uccise", i palestinesi "muoiono" e quindi "sono stati trovati morti".
Nei nostri sistemi cognitivi e culturali esiste un contesto che decide quali vite siano degne di essere piante e quali no. Se una vita non rientra nel quadro di ciò che la nostra società considera degno di cordoglio, la sua perdita non ci scuote né ci indigna allo stesso modo. Per risolvere l’incongruenza fra i nostri valori umani dichiarati e l’indifferenza di fatto verso certe vittime, tendiamo ad adattare la percezione minimizzando la sofferenza altrui, giustificando l’ingiustificabile come "necessario".
La narrazione dominante del massacro israeliano nei media occidentali tradizionali è totalmente squilibrata e contribuisce alla nostra dissonanza. Gli attacchi che colpiscono civili israeliani ricevono una copertura mediatica immediata, dettagliata, personalizzata, i drammi palestinesi tendono a essere raccontati in modo vago, impersonale, coperti con il lessico asettico delle "rappresaglie" o dei "danni collaterali". I media quindi decidono se usare parole come "massacro" oppure "operazione di sicurezza", stabilendo implicitamente chi merita empatia e chi invece può essere ignorato, ben sapendo che le neuroscienze confermano che le persone sono più inclini ad agire quando vedono e comprendono la sofferenza di un individuo identificabile. In questo scenario, i media decidono cosa si può vedere e cosa no ed alimentano un doppio standard empatico, che crea una gerarchia morale tra le vittime. 
L’informazione passa attraverso filtri che la rendono compatibile con gli interessi dominanti: la sofferenza palestinese è oscurata, la sua legittimità negata, le narrazioni alternative sono screditate o tacciate di antisemitismo. E se siamo bombardati di notizie che dipingono un popolo intero come minaccioso o terrorista, finiamo col sentire meno il suo dolore. Parallelamente, l’eccesso di immagini di violenza può avere un duplice effetto: mobilitare le coscienze oppure, al contrario, intorpidire i sentimenti. Se ci limitiamo a consumare passivamente immagini rischiamo di costruirci una corazza emotiva per sopravvivere all’orrore, specialmente se percepiamo di non poter fare nulla per cambiarlo.

5 commenti:

  1. Risposte
    1. Un commento del genere non fa altro che confermare quanto è stato scritto, magistralmente, nell’articolo. Lo sappiamo che Lei è sempre dalla parte giusta. Semplicemente, credo che farebbe meglio ad “accettare silenziosamente “ questo genocidio, che a quanto pare Lei giustifica. Io non lo accetto e non lo giustifico. Lo dico con tutta la forza possibile, ed apprezzo chi lo scrive con questa chiarezza.

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  2. Israele è una democrazia e quindi è l'unico baluardo dell'Occidente nel mondo arabo che ci è notoriamento ostile, Hamas è un gruppo terroristico sanguinario. Questa essenzialmente la tesi. Probabilmente tra una ventina d'anni ci vergogneremo tutti per non aver fatto sentire la nostra voce contro lo sterminio del popolo palestinese, intanto però la narrazione vincente è questa. Ma quante volte nella storia dell'uomo ci siamo accontentati della narrazione dominante e non abbiamo fatto niente per metterci nei panni dell'altro e comprenderne le ragioni? Gli ebrei contamineranno la nostra razza ariana pura; gli italiani non hanno voglia di lavorare, sono sporchi e portano malattie; gli extracomunitari spacciano e stuprano le nostre donne; i comunisti, i neri, gli ispanici ed i liberali minacciano l'uomo bianco ecc ... Creare un noi ed un loro è la via per giustificare il potere, anche quando questo è evidentemente sanguinario ed il suo agire ingiustificabile.

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  3. Veramente basta!!!! Non se pole più, la destra israeliana si sta comportando come se non avesse imparato niente dalla Storia. Hamas sono terroristi, ma la reazione con il progetto di estinzione ed estirpazione di un popolo non è tollerabile.

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