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giovedì 23 maggio 2024

Se non riesci a infettare quelle persone, non puoi testare quelle cose

Oggi vi raccontiamo una bella storia di fantascienza. Il cui protagonista si chiama Paul Zimmer-Harwood.


Questo ragazzo, studente di dottorato presso l'università di Oxford, tempo fa beccò il coviddi, con sintomi simil-influenzali. Proprio per questa sua sventura (o avventura?), il ragazzo fu chiamato, insieme ad altre 35 persone che si erano riprese da infezioni contratte naturalmente a partire da variabili diverse, a sottoporsi ad uno studio scientifico poi pubblicato da poco sulla prestigiosa rivista "Nature". Tutta gente già colpita dal virusse, cui si tentò di farlo riprendere per verificare come un metabolismo più volte attaccato dal coviddi potesse reagire.

Ordunque, le decine di persone furono reinfettate... Anzi, si tentò di infettarle di nuovo... Tentativo che ahimè non andò mai a buon fine. Ebbene sì, nessuno dei partecipanti al test si è di nuovo smerdato di coviddi. E ciò pone un problemone agli scienziati, che dalla valutazione e dalla "qualità" delle infezioni devono rapidamente testare vaccini e terapie. Ebbene, in questo trial si è arrivati a raggiungere un livello 10.000 volte superiore alla dose iniziale. Risultato: "Alcuni volontari hanno sviluppato infezioni di breve durata, ma queste sono rapidamente scomparse". Tutto quanto inservibile ai fini della ricerca scientifica.

E ora? Beh, iniziamo a citare una parte dello studio di "Nature": "I risultati dello studio, pubblicati il 1° maggio su Lancet Microbe1, sollevano interrogativi sull'utilità degli studi di sfida COVID-19 per testare vaccini, farmaci e altre terapie". Oibò... cosa vuol dire che ci sono "interrogativi sull'utilità degli studi bla bla bla"? Insomma, siamo a maggio 2024 e queste cose ci fanno un pochino trasecolare... Nello specifico, ecco il problema così come riferito da Tom Peacock, virologo dell'Imperial College di Londra: "Se non riesci a infettare le persone, non puoi testare quelle cose [i vaccini]". Ah, ma davvero??? Insomma, "i ceppi virali utilizzati nelle prove di sfida richiedono molti mesi per essere prodotti, rendendo impossibile abbinare le varianti circolanti emergenti in grado di superare gli alti livelli di immunità esistente nelle popolazioni".

Ordunque, è un casino fare test per gli aggiornamenti vaccinali su tutti quelli (e ora sono tanti) che hanno già chiappato il virusse, dato che non c'è modo di infettarli ancora. Insomma, pare proprio che anche dopo il 2020 il corpo umano funzioni come è capitato per millenni: chiappi un virusse e bene o male ti fai gli anticorpi. Ora, al netto della questione scientifica (che ci importa il giusto), ci sorge una domanda: ma allora, quelli che già avevano chiappato il virusse, perché furono ugualmente vaccinati a nastro? E poi, ma non si stavano producendo vaccini adeguati alle nuove varianti che stavano nascendo?

Boh, mi devo essere perso qualcosa strada facendo...

3 commenti:

  1. Tutto molto bello e, al solito, pieno di errori. Innanzitutto quello su Nature è un editoriale che commenta uno studio di un'altra rivista, Lancet Microbe. La traduzione è approssimativa e fuorviante: ad esempio, le "prove di sfida" sono le infezioni controllate. Questo modello è stato messo a punto deliberatamente su soggetti sani e già infettati, in modo da minimizzare i rischi per i volontari. Alcuni dei volontari erano stati anche vaccinati ed hanno mostrato una maggior resistenza all'infezione dei soli infetti. Per farla breve, lo studio in questione non è "inservibile ai fini della ricerca scientifica" ma ha evidenziato alcuni punti critici in questo particolare modello di infezione controllata, che peraltro non è l' unico modo di testare l'efficacia di vaccini ed altri trattamenti.

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    1. Lassalo perdere, ormai con Coviddi e sieri, Simone Bernini aka Almuta aka Primo Senesi ha completamente perso la bussola. A volte mi vergogno per lui.

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    2. Ragazzi, vergognatevi con Nature. Oddio, un po’ mi vergogno anche io… E come sempre in bocca al lupo. Al-Mutanabbi

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