Il canale youtube di wiatutti!

mercoledì 31 marzo 2021

Dal discorso del capitalista al discorso del medico: degli effetti e dello stato di transizione

Parte oggi il primo di un tot di articoli che fanno in realtà parte di un piccolo saggio che il nostro pensatore Folagra ha voluto inviarci. Vi suggerisco di leggerli, visto che a mio avviso ci possono insegnare molto. Oggi l'inizio. Si parla dei possibili effetti della gestione della pandemia (effettivamente troppo spesso ci si sofferma a ipotizzare le cause della sua nascita e poco ci si concentra sul poi, su ciò che sarà) e dello stato di transizione. Transizione da un sistema evidentemente intollerabile per tante persone ad un altro. Quale altro, cari lettori, ancora non si sa... Ma i presupposti non sono rassicuranti.


Per evitare qualsiasi strumentalizzazione del mio scritto, per non correre il rischio che sia sbrigativamente etichettato come negazionista o riduzionista o all’interno di qualche altra diabolica definizione, affermerò quale presupposto di quanto dirò in seguito che il Covid 19 sia una malattia assai temibile e nefasta soprattutto per determinate categorie di popolazione, che costituisca pertanto un problema serio e inedito sul piano sanitario-politico, quale probabilmente nessun’altra classe dirigente e sanitaria del mondo occidentale si è mai trovata ad affrontare almeno negli ultimi quarant’anni. 

Fatta questa necessaria premessa, è però indubbio che - dopo oltre un anno di straordinarie misure d’emergenza non sempre comprensibili, tanto sproporzionate quanto inefficaci, e al di là delle dovute considerazioni medico-sanitarie - occorra ormai iniziare a interrogarsi piuttosto sulle trasformazioni dei paradigmi mentali e sociali indotti da questo stato d’eccezione il cui prolungamento finisce per essere singolare proprio perché non giustificato dai suoi risultati. Si avverte, insomma, sempre più il bisogno di una spiegazione ragionevole del periodo che stiamo vivendo, che si basi su una sua osservazione meno emotiva, meno determinata dal terrore del contagio, e soprattutto non mediata esclusivamente dalla caotica, sensazionalistica e interessata cronaca tipica della comunicazione mainstream. Una spiegazione, soprattutto, che si concentri più sugli effetti che sulle cause di questa vicenda; effetti di cui pochi parlano, dal momento che la maggioranza è interessata quasi esclusivamente ad un conflitto di narrazioni in grado di individuare, appunto, le cause del fenomeno, sia che si tratti di sostenitori acritici del sistema che è stato edificato (“non si poteva fare altrimenti”, “la causa di tutto questo è un virus non le decisioni delle persone”, “non ci divertiamo di certo a chiudere”), sia dei suoi critici (“esiste un sistema di interessi oligarchici, o addirittura un complotto internazionale, che ha finito per imporre tutto questo”, “chi sta dietro a decisioni palesemente inefficaci e smentite dai fatti e dai numeri?”). In entrambe le posizioni, probabilmente, c’è un fondo di verità ma ciò che le accomuna, anche inconsciamente, è una sostanziale disattenzione verso gli effetti in gran parte preoccupanti e regressivi che ormai fanno parte delle nostre vite a seguito dell’emergenza. Come se la stesura della narrazione più convincente (è stato un complotto o, molto più modestamente, un sistema di esperti e di politici che ha deragliato di fronte all’imprevedibile?) potesse costituire una simbolica compensazione della perdita materiale del bene della vita, in molti casi del lavoro e del diritto a circolare liberamente. Gli effetti, insomma, ad un certo punto diventano più importanti delle cause. 

Per prima cosa, si dovrebbe cominciare ad avere il coraggio di definire le misure relative alla pandemia uno stato di transizione più che uno stato d’eccezione o di emergenza. Uno stato d’eccezione o d’emergenza (quest’ultimo, peraltro, non contemplato dalla nostra Costituzione) è infatti reversibile e transitorio. È un intervallo spazio-temporale circoscritto, destinato, prima o dopo, ad essere interrotto in vista del ripristino di quella condizione originaria da cui ha dovuto distaccarsi. Uno stato di transizione, al contrario, indica una fase di passaggio che può prolungarsi nello spazio e nel tempo in maniera indeterminata ma che non è reversibile, non prevede più un ritorno al punto di partenza. Sul piano topologico, insomma, lo stato d’emergenza o d’eccezione presuppone un movimento circolare in cui al termine del percorso si torna al punto da cui si è partiti, lo stato di transizione al contrario si muove ugualmente da un punto di partenza ma per non tornarvi mai più. Presenta quindi una dinamica assai meno rassicurante (anche se, a seconda dei punti di vista, può persino essere ritenuta liberatoria e auspicabile), destinata a trasformare in modo radicale i connotati di uno stato di cose magari criticabile, ma riconoscibile e identificabile. 

La transizione è un moto dinamico, ma contiene al proprio interno anche un’intima vocazione alla stasi, all’arresto entro un nuovo ordine che prima o dopo finirà per rivelarsi. La transizione, infatti, è un movimento di durata non precisata ma che si svolge sempre tra due grandezze, una determinata e l’altra da determinare, ed è questo il motivo per cui presenta due facce tra loro indiscernibili: la prima volta a erodere e a cancellare gradualmente la grandezza di partenza nell’esatto momento in cui la seconda contribuisce a edificare la grandezza d’approdo. Molto spesso, lo stato di transizione riesce a cancellare le proprie tracce non appena ha esaurito il suo compito, nel momento cioè in cui il nuovo ordine che è scaturito dalla sua azione riesce a farsi percepire come qualcosa di ormai naturale e assodato e non più come una grandezza in via di costruzione ma ancora evitabile. Interessarsi agli effetti disseminati da questo stato di transizione equivale pertanto a non permettere che le tracce del suo passaggio svaniscano, a coglierle prima che la nuova grandezza edificata diventi qualcosa di naturale e di scontato e il processo che ha portato alla sua edificazione non più rintracciabile.  

Dunque, cosa è successo durante questo anno, partendo dalla consapevolezza che misure straordinarie di durata così lunga - e che verrà verosimilmente prolungata se il sistema continuerà a rispondere con lo stesso rigore e calcolando sempre il “peggior caso possibile” al diffondersi delle varianti o agli eventuali fallimenti dei vaccini - non possono essere definite emergenziali ma transitorie? Indubbiamente questo stato di transizione ci parla del passaggio da un mondo estremamente carente e imperfetto, di sicuro non giusto e nemmeno equilibrato, ma comunque ben riconoscibile a un altro ancora non ben definito, ma che ad una prima occhiata sembra mosso dalla volontà di cancellare (o comunque di percepirlo come un intralcio al raggiungimento delle proprie finalità) quel patto sociale che da circa due secoli fornisce, almeno alla società occidentale, un imprescindibile quadro valoriale di riferimento per la convivenza civile. Non è la prima volta, ovviamente, che questo patto sociale subisce un attacco o viene disatteso, anzi più o meno esplicitamente esso è già stato oggetto di attacchi di vario genere anche nel mondo precedente fin dal momento della sua stessa comparsa storica, al punto che potremmo definirlo più come un orizzonte d’attesa a cui aspiriamo che una realizzazione pratica o, peggio ancora, per gli scettici, come una finzione necessaria che in realtà camuffa un costante meccanismo di violenza e di sopraffazione. A differenza del passato, però, nel quale il nemico del patto sociale, almeno a livello di retorica ufficiale, era incarnato inevitabilmente dall’egoismo, dal vizio, dall’asocialità aggressiva, in questo caso l’attacco sembra avvenire per la prima volta, paradossalmente, in nome del bene, della salute, della pacifica convivenza, della difesa del genere umano, cioè di quei valori che ne erano stati da sempre rappresentati come i presupposti d’origine e i suoi principali mallevadori. Dunque la razionalità e l’etica ufficiali sono favorevoli a questo attacco. Non ci sono alternative, è lo slogan che lo sorregge, e ricorda da vicino quei miti greci in cui i padri sono costretti a sacrificare i figli migliori (in questo caso il patto sociale che dovrebbe tutelarci) per il bene della comunità. Avendo pertanto dalla sua parte i migliori valori dell’etica laica e religiosa, questo attacco riesce a mettere d’accordo vasti segmenti dell’opinione pubblica, che si sono riscoperti loro malgrado, e per ragioni diverse, hobbesiani, ossia bisognosi di un potere terribile e pervasivo che sia però in grado di fornire loro salute e sicurezza, pur prendendosi tutto il resto, tutte le altre libertà e gli altri diritti. Anzi, essere hobbesiani è diventato l’unico atteggiamento sano e ragionevole che possa essere concepito. Come Giorgio Agamben ha però annotato durante la primavera 2020, è certo che la vita di milioni di persone doveva essere in ogni caso intollerabile se è stato così facile rinunciarvi in nome della paura e della pura sopravvivenza. E questo è un dato da cui effettivamente non si può prescindere: il mondo precedente doveva aver prodotto enormi dosi di risentimento, frustrazione, infelicità, perché moltitudini di persone accettassero di perderlo senza combattere o protestare dalla sera alla mattina, affidando totalmente le loro vite a esperti, politici, medici, grande comunicazione, il Leviatano odierno, per intenderci.



Marco Bianciardi (Folagra)

7 commenti:

  1. Quanto detto da Agamben e che hai riportato nelle ultime 6 o 7 righe è infatti il nodo cruciale: perchè in un anno di privazioni e restrizioni, ci sono state soltanto alcune sparute manifestazioni di popolo (alcune delle quali, secondo me, anche un po strumentalizzate), e niente più? Eravamo in un turbine di insoddisfazione tale che alcuni hanno inizialmente accolto la pandemia come una sorta di "liberazione" o "disintossicazione" dal turbine dei mille impegni quotidiani? Capisco che molti riescano a vivere bene lo stesso, ma coloro che vivevano del "turbine", come mai non hanno fatto la voce grossa? Perchè non ci sono stati gesti importanti, o eclatanti, in nessuna parte del Globo? Mi sono perso qualcosa?
    L'antipatico Sanguebianconero

    RispondiElimina
  2. Non capisco perché lo stato di transizione debba essere il postulato su cui si basa questo scritto. È una possibilità, comunque implicita nel fatto che storicamente gli sconvolgimenti, che siano guerre, cataclismi o epidemie, hanno spesso modificato lo status quo.
    Capisco poco anche il bisogno “hobbesiano” di un potere terribile e pervasivo. Si potrebbe infatti trattare di semplice istinto di sopravvivenza (capita anche quando da piccoli comprendiamo che infilando le dita in una presa di corrente si rischia di rimanere fulminati) o di protezione dei propri cari, cose basilari, che si possono far risalire alla nostra natura animale e non a sovrastrutture filosofiche o psicologiche. E poi perché non avere dubbi su quanto teorizza Agamben. Non potrebbe altrettanto essere plausibile (in questo caso mi sembra più semplice ipotizzare che quanto valga per me possa anche valere per gli altri) che in molti si preferisca soffrire e rinunciare a molto oggi per poter tornare alla vita di ieri (domani), che al momento presenta degli struggenti tratti fiabeschi nella mia mente?
    A.

    RispondiElimina
  3. Il potere dello Stato nel Leviatano si basa esattamente sull'istinto, il bisogno naturale di sicurezza e salute di cui parli A. B. Hobbes è tutto fuorché astratto. Ti concedo tutto, rinuncio a tutti gli altri miei diritti naturali e te li consegno, purché tu, sovrano, garantisca, o mi dia l'illusione di garantire, la mia salvezza. Nel frontespizio del Leviatano, la città è vuota, tutti gli esseri umani compongono la figura del sovrano e si sono alienati in lui. Le strade sono vuote e vi si trovano solo guardie e, guarda caso, medici con la maschera a becco tipica delle pestilenze.

    RispondiElimina
  4. Beh, Folagra ha semplicemente espresso la sua analisi della situazione, sono opinioni da non sottovalutare (secondo me nemmeno gli opilioni sono da sottovalutare ma questa è un'altra opinione). Si può criticare quanto si vuole, solo che talvolta bisogna anche fare autocritica e capire che tipo di persone siamo, difficile eh perché se ci si riesce capita di rendersi conto di essere schiavi consapevoli che fino ad ora si sono beati del proprio benessere immersi in una bambagia che ti tira le orecchie perdendo di vista valori umani che ritengo fondamentali. Questa situazione (transitoria o emergenziale che sia) ha spesso tirato fuori il peggio. Se è transitoria ci dobbiamo rassegnare ad essere uomini di merda, se è emergenziale c'è la speranza che qualcuno si guardi indietro e dica "ammazza che stronzo sono, spetta che da oggi voglio essere meno stronzo". Io comunque sono per la situazione transitoria e anche per la transistoria che può essere interpretata come la storia dei trans o dei transistor a seconda di quello che si preferisce

    RispondiElimina
    Risposte
    1. commento a dir poco geniale... te sei avanti :-)
      Sanguebianconero

      Elimina
    2. Dopo attenta riflessione, io preferisco la storia dei transistor. Al-Mutanabbi

      Elimina
    3. Criticare facendola sembrare autocritica, dare degli stronzi facendo finta di darsi degli stronzi...quando si dice muoversi sul filo del rasoio.
      Nessuna sottovalutazione, anzi, sono pensieri elevati ma perfettamente organici allo spirito del tempo, con i quali invece di analizzare i fatti dopo che sono avvenuti, si preferisce vaticinare un futuro apocalittico, speriamo distopico. E poi se Ferrara è pesante...
      A.

      Elimina