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venerdì 14 novembre 2025

Sarajevo Safari

La memoria del me ventenne o poco più, spensierato come solo i ventenni o poco più possono esserlo, fu segnata dai mesi di violenza efferata condotta da pazzi a pochi chilometri dai nostri confini, in quella che una volta era la Jugoslavia. In particolar modo, orrore mi creavano i cecchini che dalle colline ammazzavano innocenti che erano costretti a scendere in strada.


Si sa che dalle colline nella Sarajevo assediata, per quattro anni, durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina nel ‘91-’95, i cecchini serbi spararono soprattutto contro i civili. Ma non c’erano solo serbi a sparare.

Il film “Sarajevo Safari” del regista sloveno Miran Zupanič, presentato nel 2022 alla rassegna cinematografica Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival, attirò particolarmente l’attenzione dell’opinione pubblica affrontando uno degli aspetti tragici meno conosciuti e documentati della guerra negli anni ’90. Il regista Zupanič volle cioè far luce su un’attività senza scrupoli che avveniva durante l’assedio, quando molti uomini stranieri, spinti alla ricerca di esperienze forti, pagarono per unirsi all'esercito serbo per poter sparare ai cittadini di Sarajevo.

Il testimone chiave nel documentario, che ha preferito rimanere anonimo, raccontava di avere avuto una formazione militare negli anni ‘80 ed aver lavorato nell'intelligence. Quando iniziò la guerra, ricevette una proposta da un’agenzia americana per attraversare il Paese come finto giornalista acquisendo informazioni. Andando in giro come "giornalista", acquisì molte informazioni e venne a conoscenza di veri “cacciatori di esseri umani” che venivano a Sarajevo. Si trattava di uomini stranieri, la cui provenienza non era ancora molto chiara. Alcune fonti parlavano di americani, canadesi e russi, altre di italiani, che erano disposti a pagare per giocare alla guerra.

Nel documentario c'era anche E. S., ex ufficiale dell’intelligence militare bosniaco, che davanti alla telecamera parlò della testimonianza di un soldato serbo catturato che gli aveva riferito di aver assistito in prima persona al trasporto di uno dei “cacciatori”. Non era facile far venire i civili a Sarajevo e le località di riferimento per questi spostamenti erano prima Belgrado e poi Pale, a pochi chilometri di Sarajevo dove risiedevano gli ufficiali dell’esercito serbo. Molti di questi uomini arrivavano a Belgrado attraverso l’Italia. In più, c’erano le testimonianze dei civili sarajevesi colpiti o che avevano perso dei familiari.

La storia dei safari non era del tutto inedita. Come afferma il giornalista e co-fondatore di “Infinito Edizioni” Luca Leone, i giornalisti che lavoravano a Sarajevo, ma anche tutta la popolazione della città assediata durante la guerra, sapevano del caso dei cecchini paganti. Nel suo romanzo “I bastardi di Sarajevo”, uscito nel 2014, Leone fu tra i primi a parlare del caso: “Stranieri da tutta Europa, tra cui anche italiani, pagavano ai checkpoint gestiti dai paramilitari serbi sia in Croazia sia in Bosnia per poi passare un fine settimana a sparare sui civili sopra Sarajevo”.

Il film suscitò molta polemica tra l’opinione pubblica. Nell’intervista di presentazione, Zupanič sostenne che, oltre a scoprire la verità dei fatti accaduti trent'anni fa, fosse necessario indagare i profili psicologici di uomini disposti a pagare grosse cifre per sparare su civili sconosciuti.

Da qualche giorno è stato presentato un esposto alla procura di Milano dallo scrittore giornalista Ezio Gavazzeni, che proprio dal film ha iniziato a scavare e ha raccolto testimonianze importanti, comprese quelle di E.S. e dell’ex sindaca della città, Benjamina Karic, che dopo il documentario presentò denuncia. Il pm Alessandro Gobbis, che conduce l’inchiesta affidata al Ros (l'ipotesi di reato è omicidio plurimo aggravato da motivi abietti e crudeltà, finora il fascicolo è senza indagati), sentirà Gavazzeni nei prossimi giorni. E poi potrebbe ascoltare anche l'ex sindaca, che si è già detta disponibile a raccontare la sua versione.

Tra i fogli presentati, anche una lettera firmata da E.S., un ex militare dell’intelligence bosniaca che, avendo ascoltato i resoconti di un prigioniero serbo catturato all’epoca, si complimentava per la perfetta descrizione del cecchino straniero: “Un cacciatore appassionato che ha già provato tutti i tipi di safari classici legali e poi per il bisogno di adrenalina cerca anche una testa umana come trofeo; una persona che ama le armi ed è allo stesso tempo un tipo psicopatico; un ex soldato che non riesce a fermarsi dopo essere stato su alcuni campi di battaglia. In ogni caso, sono tutti appartenenti alla cerchia di persone ricche e probabilmente influenti nelle loro comunità. Hanno le risorse legali per proteggersi da un’eventuale indagine, e anche l’influenza politica per ostacolarla. Il livello di rischio che l’operazione venga scoperta e che gli attori vengano perseguiti è ridotto al minimo da una buona organizzazione”.

L’obiettivo dell’inchiesta è rintracciare almeno gli italiani che si sarebbero macchiati di crimini efferati e spregiudicati grazie alle ricostruzioni dei vari testimoni. Si sa che queste persone erano almeno cinque, erano vicine all’estrema destra, andavano regolarmente a caccia e avevano un amore per le armi che va al di là della semplice passione. I “turisti della guerra” o “cecchini del weekend” erano disposti a pagare l’equivalente di 80.000-100.000 euro pur di prendere parte alla spedizione, che consisteva nello sparare a civili inermi. Il costo saliva se i bersagli erano dei bambini, come se ci fosse un prezzario delle vittime. Ma nessuno sembra essersi lamentato di dover sborsare più soldi. Atterravano a Belgrado con la compagnia serba Aviogenex, poi venivano guidati in Bosnia sulle colline attorno a Sarajevo. E da lì sparavano. A raccontarlo è proprio E.S., che alla fine del 1993 aveva contattato il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (Sismi, oggi Aisi) per segnalare la presenza di alcuni italiani tra i tiratori a pagamento. I servizi italiani sapevano quindi tutto, o quasi, come risulta anche dalla risposta che avevano dato al tempo: “Abbiamo scoperto che il Safari parte da Trieste. L’abbiamo interrotto e il Safari non avrà più luogo”. Anche dai resoconti offerti a Gavazzeni sappiamo che partivano da Milano, Torino, Trieste, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, forse confondendosi in qualche convoglio umanitario che trasportava aiuti. Avevano tra i quaranta e i cinquant’anni, pertanto qualcuno dovrebbe ancora essere in vita, e uno di questi – il milanese – sarebbe stato un proprietario di una clinica privata specializzata in chirurgia estetica. Ma il numero è al ribasso, per cui gli inquirenti si aspettano che la lista dei responsabili sia più lunga. Uomini, donne, bambini: sparavano a chiunque passasse a tiro, per mero divertimento.

Sarebbe bellissimo oggi sparare a loro.


4 commenti:

  1. Come di fa ad avere fiducia nel genere umano?
    Dio abbi pietà

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  2. Già la notizia sentita alla tv aveva schifato, l'approfondimento è terrificante. Non c'è limite a quanto gli umani possano essere belve sanguinare.

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  3. Pena di morte lo avevo letto in un libro ma era un giallo questa è realtà

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