La combattiva giornalista Sonja Elijah l’ha fatta grossa, presentando una richiesta di accesso agli atti al Dipartimento britannico per la Scienza, l’Innovazione e la Tecnologia (DSIT). In pratica, ha squarciato quel velo di segretezza che copriva il ruolo della NATO nella censura durante la pandemia.
A noi quella presenza del comandante NATO all’interno del CTS è parsa fin da subito anomala e sospetta. Però noi siamo terrapiattisti, per cui ci eravamo auto convinti che in fondo un militare dentro un comitato scientifico fosse cosa assolutamente normale. Beh, oggi, alla luce della risposta del DSIT, i nostri dubbi rischiano di diventare certezze.
La risposta alla richiesta della Elijah, pur negando ogni dettaglio concreto, ha ammesso l’essenziale: la NATO ha avuto un ruolo diretto nella definizione delle linee guida per combattere la cosiddetta “disinformazione sui vaccini”. In altre parole, il controllo narrativo durante la pandemia non fu solo opera dei governi nazionali o dei giganti digitali, ma di un apparato militare transnazionale che agiva dietro le quinte della comunicazione pubblica.
Il DSIT ha difatti confermato di “possedere informazioni che rientrano nell’ambito della richiesta”, ma ha rifiutato la pubblicazione citando il Freedom of Information Act: tutela delle relazioni internazionali e protezione dei dati personali. In pratica, ha ammesso l’esistenza di documenti che collegano la NATO e il suo Centro di Eccellenza per le Comunicazioni Strategiche (StratCom COE) di Riga alla gestione della propaganda sanitaria, ma ha deciso di mantenerli classificati. Una negazione lunga cinque pagine, motivata con la solita formula: la divulgazione “potrebbe compromettere gli equilibri internazionali” e “i negoziati in corso”. Quali negoziati, nel 2025, riguarderebbero ancora una pandemia terminata anni prima, resta un mistero.
Elijah ricorda che tra il 2021 e il 2023 la Counter Disinformation Unit del Regno Unito - integrata nello stesso DSIT - monitorava parlamentari, giornalisti, accademici e cittadini considerati “scettici sui vaccini”. I loro contenuti venivano segnalati ai social network per la rimozione, mentre la 77ª Brigata dell’esercito produceva “rapporti di disinformazione” su civili britannici. Alcune società di intelligenza artificiale, pagate milioni di sterline, analizzavano tweet, post e petizioni in tempo reale. Ora, con la conferma del DSIT, si scopre che la NATO era parte integrante di questo apparato di sorveglianza cognitiva.
Non è un caso isolato. Già il governo olandese aveva ammesso il coinvolgimento della NATO nella definizione dei cosiddetti “obiettivi di resilienza”, obiettivi che autorizzano l’Alleanza ad agire come architetto politico e psicologico degli Stati membri in caso di crisi. Il Centro StratCom di Riga, punta di diamante di questa struttura, applica la psicologia comportamentale alla guerra dell’informazione. Nei suoi report ufficiali, la NATO descrive lo scetticismo vaccinale come “virus cognitivo” da neutralizzare attraverso la “teoria dell’inoculazione” – un linguaggio che confonde deliberatamente biologia e propaganda.
L’intero quadro rivela una realtà scomoda: la NATO non è solo un’alleanza militare, ma un sistema di governo ombra che interviene direttamente nella formazione dell’opinione pubblica e nella gestione delle crisi civili. Il coviddi ha offerto il contesto perfetto per testare su larga scala i meccanismi di manipolazione narrativa, dalla censura algoritmica al condizionamento psicologico. E mentre i documenti restano segreti, il messaggio è chiaro: il fronte della “resilienza” è ormai quello del pensiero controllato, dove il dissenso viene trattato come una minaccia alla sicurezza collettiva.
Come talvolta capita, avevamo visto giusto…

Eh ma se non ci attraventi una ventina di virgolettati questo articolo dura come un gatto in tangenziale.
RispondiEliminaÈ uguale, con le virgolette non cambia niente. Importante è che la gente lo legga, come sta succedendo.
EliminaFuori dall'Ue
RispondiEliminaFuori dalla Nato
Fuori dai coglioni!
Si, non ci stupiamo più di nulla.... è stata una pagina terrificante della storia del genere umano e la cosa più terribile è che si ripeterà, quando e in quale forma non è dato sapere.
RispondiEliminaPoi c'è la Robur che in D ci fa la fondata, ma almeno i diversamente finlandesi stanno andando alla grande sul fronte strutture.
Eccoci di nuovo con la “scoopata” che dovrebbe smascherare il “grande complotto NATO della censura”, ma che, letta con un minimo di senso critico, si riduce all’ennesimo caso di cherry picking e allarmismo costruito su mezze frasi burocratiche. Partiamo dal fatto: la giornalista Sonja Elijah ha fatto una richiesta FOIA (Freedom of Information Act) al DSIT britannico, che ha confermato di avere documenti collegati alla NATO e alla comunicazione durante la pandemia ma non li ha pubblicati per motivi di riservatezza internazionale. Bene. Sai quante volte succede? Praticamente ogni giorno. Il fatto che il governo non pubblichi materiali di cooperazione tra Stati o agenzie internazionali non è una prova di “governo ombra”: è semplicemente normale prassi di sicurezza diplomatica. La NATO, e in particolare lo StratCom COE di Riga, si occupa di studiare le dinamiche della disinformazione e fornire supporto strategico ai Paesi membri su come comunicare in situazioni di crisi. Non è un organo segreto che decide cosa puoi pensare: è un centro di ricerca, e i suoi report sono perlopiù pubblici e consultabili online. Parlano di media literacy, contrasto alle fake news, psicologia della comunicazione — roba che qualsiasi università civile fa ogni giorno.
RispondiEliminaL’articolo di Elijah e i post come questo travisano tutto: scambiano la lotta alla disinformazione (che ha l’obiettivo di evitare che bufale pericolose mettano a rischio vite, come durante la pandemia) per un programma di censura totale. È una narrativa che funziona solo se si parte dal presupposto paranoico che “tutto ciò che è coordinato tra governi è manipolazione”.
E la “77ª Brigata” che viene tirata in ballo? Anche lì, nulla di segreto: è un’unità militare britannica che analizza i flussi informativi online, soprattutto per difesa da campagne di disinformazione estera (tipo Russia o Cina). Non spia i cittadini per il gusto di zittire chi scrive su Telegram, ma protegge infrastrutture digitali e individua fake news dannose. Il linguaggio del post — “sistema di governo ombra”, “sorveglianza cognitiva”, “pensiero controllato” — è la solita costruzione retorica da complottismo: prende un fatto reale (coordinamento tra NATO e governi per contrastare la disinformazione), ci appiccica sopra un vocabolario da fantascienza distopica e lo presenta come “la prova che avevamo ragione”. Ma di prove, concrete, non ce n’è mezza: solo interpretazioni forzate.
La verità è molto meno cinematografica: la NATO non decide chi può parlare, i governi non “censurano” le opinioni, ma cercano — a volte con più burocrazia che efficacia — di arginare la valanga di notizie false che durante il Covid ha letteralmente causato morti. Se questo dà fastidio, non è perché viviamo in un regime, ma perché la realtà resiste male alle narrazioni da thriller geopolitico. In sintesi: nessun “velo squarciato”, nessun “governo ombra”, solo una richiesta FOIA usata come carburante per un racconto paranoico che serve a far sembrare ogni collaborazione internazionale un complotto. Il vero segreto? Che chi continua a diffondere queste storie conta proprio sul fatto che la gente non vada mai a leggere i documenti originali.