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venerdì 3 aprile 2020

Affetti Personali

È un giovedì limaccioso e melenso, ma potrebbe essere un qualsiasi altro inutile giorno della settimana. Cielo azzurro senza nuvole e sole giallo. L’inverno è finito, ma questa beffarda primavera ha portato in dote soltanto il cambio dell’ora. 


Al di là del vetro, dopo tanto rumore la vita scorre lenta, come l’acqua del fiume dopo la cascata. Il tempo pare dilatarsi all’infinito e le ore sembrano non passare mai. La sabbia della nostra esistenza, ruvida e grossolana, stenta ad infilarsi nel piccolo foro di una realtà distorta, fatta a forma di clessidra. Tic Toc. Come in quel lontano Siena - Sampdoria vinto in 9 contro 11, i minuti sono interminabili. Quanto manca? Parecchio; e poi ci sarà anche il recupero. Soltanto all’ora di cena è possibile tirare un sospiro di sollievo: un altro giorno è andato e la sua triste musica è finita. Il frigo è pieno ma non è Natale. I ragazzi sono in camera ma non è una vacanza. Il telefono suona: tracce di vita normale in mezzo ad un silenzioso niente. 
Come d’abitudine a metà pomeriggio arrivano i dati, pubblicati di fretta su di un fogliaccio di excell colorato. Intorno alle 18 "Radio Londra" ci rovescia addosso il suo quotidiano carico di disperazione. Giallo, verde e rosso. Più che un bollettino di guerra sembra la bandiera del Ghana. Quasi 15.000 morti, ma andrà tutto bene. Già… che fortuna. Perché non oso pensare a cosa poteva succedere se invece qualcosa fosse andato storto. 
Questo sarcasmo è soltanto una forma di autodifesa, credo. Ammetto che non ho mai avuto paura di morire. O meglio, la morte mi ha sempre incuriosito. Ma in questi giorni non so più cosa pensare. Volevamo combattere il virus con un file di excell e una saponetta Dove. Illusi. Io la vorrei vincere questa battaglia, ma oggi credo mi accontenterei anche di un pareggio. E invece la guerra sembra impari e i nomi dei caduti si accumulano sui necrologi dei quotidiani locali. Lo strillo di un bimbo riporta per un secondo la mente a quella normalità ostentata nelle pizze cotte nel forno di casa, negli aperitivi domestici, nei dolci preparati secondo una ricetta trovata in rete. Stiamo ingrassando, ma non mi pare un gran problema. 
Quanti morti oggi? Non so: 700, 800 forse 1000. Tanti, troppi. Un esercito silenzioso e disarmato lanciato incontro alla disfatta. Non ci sono parole per descrivere questo momento. Quelle che c’erano sono già state usate nei giorni scorsi. Chiunque ha detto la sua. Nelle cuffiette la musica dance anni '90 sparata ad un volume vergognosamente alto mi impedisce di pensare, mentre conto i minuti che separano l’alba dal tramonto. Noi, figli della generazione "alzati e fattura", inchiodati al tavolo di casa come "I Vecchi" di Claudio Baglioni, chiamati a salvare il mondo stando seduti sul divano. Chi l’avrebbe mai detto? Già, chi l’avrebbe mai detto che un nemico piccolo e invisibile sarebbe stato in grado di combinare tutto ‘sto casino? 
Anno bisesto anni funesto, diceva mia nonna. Se ne è andata una mattina di metà aprile di qualche anno fa e se ci penso mi vergogno da morire per non avere avuto la possibilità di farla addormentare per sempre nel suo letto. Il giorno della sua morte le infermiere della clinica ci consegnarono una salma da piangere e un sacchetto di plastica. Effetti personali, ci dissero: un pigiama, una catenina d’oro, un paio di orecchini con un cammeo. E il profumo della sua crema per le mani, che sapeva di buono, che sapeva di casa. Ai giorni nostri invece, in piena peste moderna, gli effetti personali se ne vanno con il defunto. Niente ricordi, niente oggetti da tenere in mano mentre una lacrima riga il volto. Entrano in ospedale vestiti e non ne escono più. A chi resta rimane soltanto il sacchetto degli Affetti Personali, pieno zeppo di tutti quei momenti felici che ha vissuto con il caro defunto. La chiamano pandemia, ma è in realtà è una guerra perfida, combattuta contro un nemico bastardo che se la prende soltanto con i più deboli, come un qualunque bulletto da quattro soldi. "Fallo a me se hai il coraggio", verrebbe da gridare forte, stringendo i pugni. "Fallo a me brutto infame! E lascia stare i nonni". 
Non so come ci risolleveremo da questa ennesima mazzata. Forse per un secondo avremo la sensazione di essere un po’ tutti meno senesi, romani, milanesi e saremo magari tutti un po’ più italiani. Forse. Sicuramente saremo meno europei. O forse tutto tornerà come prima e in breve tempo la fatturazione di fine mese tornerà ad essere il nostro unico problema. Stiamo facendo la storia rimanendo immobili. Stiamo facendo la storia cantando dai balconi. Stiamo facendo la storia… su Instagram. E il sacchetto degli Affetti Personali ogni giorno si riempie un po’ di più. 
La scelta casuale del programma di musica adesso mi propone un attacco di chitarra. Niente pubblicità a rovinare questo momento. "Forse non sarà una canzone". Riconosco le voci di Bennato e della Nannini. "Un’estate italiana" molto probabilmente è stata la colonna sonora degli ultimi giorni della mia infanzia, durante i quali, nel momento in cui Aldo Serena sbagliava il suo rigore, smisi di essere bambino e cominciai ad essere un ragazzo. E pensare che quel Mondiale perso in casa qualcuno lo definì un dramma nazionale. A volte diamo veramente un significato sbagliato alle parole che utilizziamo. Oggi, dopo 30 anni, la mia generazione sta purtroppo toccando con mano cos’è un dramma nazionale, capendo anche che non è più tempo di essere ragazzi. E lo capisce mentre osserva i propri genitori e zii andarsene senza nemmeno un funerale. Lo capisce mentre raccoglie quel sacchetto colmo di Affetti Personali e lo ripone nel mobile di sala, vicino alle fotografie dell’ultimo capodanno, quando la Cina era ancora un posto lontano dove stavano succedendo cose strane. Poi boh... La situazione è precipitata e quel babbo appena andato in pensione adesso non c’è più. Si è trasformato in un numero, scritto nella colonna rossa di un triste foglio di excell. Tanto muoiono solo gli anziani, disse qualcuno. Questo virus fa un piacere all’INPS, aggiunse un altro. Poi, però, alla fine è arrivato davvero. E si è portato via pezzetti della nostra vita, strappandoli con i denti come polpa dall’osso di una costolina di maiale, mangiato assieme a chi adesso non c’è più, quando ancora si poteva stare fuori e la vita faceva meno paura. Passerà, oh sì, grosso modo passerà. Ma non andrà tutto bene. No, passerà e basta. E noi magari torneremo alla nostra solita vita: un po’ più grandi, un po’ più tristi, un po’ più soli. 



"I vecchi, se avessi un'auto da caricarne tanti
Mi piacerebbe un giorno portarli al mare
Arrotolargli i pantaloni e prendermeli in braccio tutti quanti
Sedia sediola, oggi si vola, e attenti a non sudare"
Claudio Baglioni, "I vecchi", da Strada Facendo, 1981.


Mirko

5 commenti:

  1. Mirko, finalmente !
    Io, comunque, sono convinto che occorra cominciare a pensare al futuro, senza attorcigliarci su questi numeri che fanno impallidire le battaglie dell'Isonzo. Il Rastrello andrà ripensato, poiché la nostra vita dovrà convivere col virus; potremmo pensare ad un suo futuro utilizzo come
    1) Orti Urbani
    2) Parcheggio
    3) Nuove sezioni della Misericordia

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    1. Per quanti spettatori seguono la Robur, il Rastrello è assolutamente idoneo per consentire il distanziamento sociale. In campo invece era già da inizio campionato che i calciatori avevano provveduto a garantirlo.

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    2. Per la RoburBarlattascoLigure attuale e per i 10 aficionados della lasagna domenicale si consiglia l'esodo a geggiano.
      Negli spazi del rastrello,si faccia un nuovo polmone verde,che è parecchio meglio.

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  2. Anna la Morosa ha pagato tutto,vero?
    I conti sono in pari?
    Dai che il prossimo anno,di fronte al tutto esaurito del Rastrello,assisteremo a grandi spettacoli pallonari!!

    W chi doveva controllare!

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    1. A proposito di conti in pari: ma il bilancio che dice? Con quanto "rosso" è stato chiuso? Sapete qualcosa? Grazie

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