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venerdì 17 marzo 2017

Riflessioni semiserie a schema libero

Il giorno comincia quando finisce la notte. In pochi minuti il buio viene spazzato via dalla luce, che invade la mia stanza con arrogante prepotenza.
A fatica riemergo dai sogni, mentre l’oscurità torna ricordo e la realtà riprende sostanza. Guardo allo specchio la mia immagine riflessa, chiedendomi chi sono.
Ciò che vedo non mi assomiglia più. Massaggiandomi le guance con la crema dopobarba, tento di trovare le risposte ai tanti quesiti che affollano la mente. Invano; perché sono sempre sbagliate le risposte che trovo. Non è vero che la notte porta consiglio. In realtà, porta soltanto un altro giorno. Identico al precedente e, soprattutto, al successivo.
Ma in fondo cosa ne posso sapere io di risposte o roba simile: sono solo un cameriere, che, per guadagnarsi da vivere, porta piatti tutto il giorno. Come prima di me faceva mio padre. E prima ancora mio nonno. Passo tra i tavoli, sorrido e obbedisco. Tu servi ma non sei un servo, diceva spesso il mio vecchio. E io credevo alle sue parole. Almeno fin quando non mi confessò di averle sentite in un film di Benigni. "Perché", gli chiesi, "utilizzi le parole degli altri per darti un'aria d’importanza?". "Che male c’è a farlo?", rispose sicuro. "Se in giro c’è qualcuno più intelligente di me, perché non approfittarne?". Mi sembrò sincero. Decisi di credergli anche in quell’occasione. Io credo sempre a tutti. Ma anche quelle parole erano di un'altro. La gente spesso non pensa ciò che dice. O peggio ancora, dice quello che non pensa. Come il mio capo, quando fa la cresta sulle mance e si lamenta dei guadagni. Anche se poi vedo i pezzi di lesso che riesce a spacciare per ‘tagliata’. Odio la Fiorentina: sia la squadra che la bistecca. E ho tanti validi motivi per farlo. Ma li tengo tutti per me. Altrimenti poi finisce che litigo con qualcuno.
Il cuoco all’ora di cena, quando il locale è pieno e le ragazze si affannano dietro ai fornelli, mi dice sempre: non c’è un "secondo" da perdere. E io non so mai se si riferisce al tempo o alla carne. Lo guardo e abbasso la testa. Come ho sempre fatto in vita mia. Qualche sera fa, durante un matrimonio, un’anziana parente della sposa, fermandomi mentre recuperavo le posate dai tavoli, mi ha detto: "Giovanotto, la sposa è bellissima oggi. Ma anche il contorno non è niente male". Pur sorridendo, me ne sono rimasto in silenzio a guardarla, pensando alle tre patate bruciacchiate servite con l’arrosto, prima di sparire dentro la cucina. Ma forse non si riferiva a quello. Non mi piacciono i matrimoni. Li trovo un inutile ‘giUramento di coglioni’.
Anche io stavo per sposarmi anni fa, con la donna che mi aveva appena reso padre. Vicino a lei, i giorni trascorrevano felici. Era bella come "quella Madonna che un giorno qualcuno pescò". Ascoltavamo assieme le canzoni di Samuele Bersani ed il tempo volava. Nonostante i mesi di fidanzamento, sentivo di amarla ancora come il primo giorno. Peccato che lei non mi avesse mai amato, nemmeno il primo giorno. E infatti una sera se ne andò via, lasciandomi da solo con un bimbo piccolo da crescere sano.
Per questo non detesto il mio lavoro: attualmente è tutto quello che mi resta per essere normale. Ascolto i clienti, sorrido. Scrivo gli ordini, sorrido. Ritorno con gli antipasti, sorrido. Il vino sa di tappo, lo cambio. È caduto un coltello? Non si preoccupi, dia pure a me. Poco importa se poi mi viene passato dalla parte della lama. La gente non dà mai importanza ai gesti. E poi il cliente ha sempre ragione, anche quando abusa del buon senso. Più volte ho pensato di andare via, scappare da questa città e rifugiarmi altrove. A fare che, mi sono poi chiesto. Se devo scappare a Londra o a Berlino per fare il cameriere, tanto vale lo faccia a casa mia. Non ho mai capito perché certi mestieri vadano bene solo se fatti all’estero. E poi io qui ho tutto. Ho mio figlio, la mia vita, la mia storia. Ho il mio Stato, che mi considera un bancomat, tassandomi anche l’aria. Ho i miei debiti, le mie paure e le mie piccole soddisfazioni. Ho la Robur e le sue strisce bianco e nere. Anche se a me piaceva la maglia inquartata con i pantaloncini bicolori. Come quell’anno in Serie D. A volte al locale vengono anche i giocatori. E io li guardo di nascosto, invidiandoli. Darei la vita per essere uno di loro, segnare un goal alla prima in classifica e correre sotto alla curva. Anche se adesso non è più quella di un tempo. Troppe lune sono passate oramai.
A scuola mi insegnavano che fare il braccio teso era apologia di fascismo. Ho impiegato secoli per conoscere il significato di questa parola. Una volta scoperto, ho pensato che allora "gamba tesa", doveva essere "apologia del risultato". Ma a questa battuta non ha mai riso nessuno.
Divido la casa con una collega: mi aiuta con il ragazzo e concorre alle spese. Tra fondo cassa e fondotinta ci supportiamo a vicenda. Dopo il lavoro, restiamo fino a tardi a parlare in cucina. Ma non c’è niente fra di noi. Lei fa discorsi complessi, pieni di parole strane. Una sera mi disse che trovava sbagliata la pena di morte. Io però non lo so ciò che è giusto. Penso ai condannati e mi immagino la mano di un giudice che li spedisce nel braccio della morte e allora mi chiedo: là dentro troveranno una spalla sulla quale piangere? Penso troppo e parlo poco. Dentro la mia testa i miei ragionamenti filano sempre lisci. Vorrei esistessero i campionati rAgionali, dove a vincere fossero i "pensieri contorti". Sarei sicuramente il campione del mondo.
Mi piaceva il Siena in Serie A. Adoravo il clima che c’era la domenica, i telegiornali che parlavano di noi, le foto sul giornale. Mi manca tutto di quel mondo, anche i goal subiti in fuorigioco che nessuno ha mai fischiato. Era bello sentirsi importanti. Sognavo di veder giocare dal vivo Verratti, ma poi ho dovuto accontentarmi di Varutti. Non torneremo mai più grandi, nemmeno fra cento anni. Di questo sono sicuro. Adesso ho addirittura l’impressione che tutto stia per finire. Non credo alle parole di questa proprietà. Non credo a quelle di coloro che l’hanno chiamati. Non credo ai loro progetti. Quando posso vado allo stadio, mi siedo al mio posto e osservo in silenzio la partita. Vorrei che questi anni di triste purgatorio fossero una macchia di pomodoro sulla camicia bianca, perché in quel caso basterebbe un passaggio in lavatrice per cancellarli. E invece, giorno dopo giorno, me li ritrovo fra i piedi, come una chiazza di sugo che non ne vuol sapere di andarsene. Sono solo un cameriere, che serve piatti e non fa domande. Guardo, osservo e provo a pensare. Ma senza giudicare. A quello ci penserà il tempo.

Siena –Alessandria: arriva la prima in classifica e la figura di merda è dietro l’angolo. Tanto oramai, una più o una meno, che differenza fa?

Tutti uniti insieme avanzeremo.


Mirko

4 commenti:

  1. Cameriere!!

    Porti immediatamente un piatto di trofie al pesto al mio amico Giacomone,che ne va pazzo!

    José Altafini,pensionato.

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  2. Di non fare il cretino , una volta tanto, non ti va vero ? Tutti i giochi sono belli quando durano poco...ma non credo che capirai..il tuo livello è quello...

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  3. GIACOMONE CAPO'ULTRA'!

    Dei PENSIONATI,ovviamente.

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