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mercoledì 9 novembre 2016

La scempia e la doppia

Ci sono delle persone, delle circostanze e dei momenti che abbiamo amato e che, nonostante tutto, ci mancheranno per sempre. Indifferentemente dalle pieghe che la vita prende, rispetto alle quali non si è mai troppo forti per opporvi resistenza.
Perché ad un certo punto, l’essere umano smette di lottare e si accontenta di ciò che ha, pensando che di fronte ad un bicchiere mezzo pieno ci sia soltanto da perdere. E la vita continua, anche senza di noi. Lo diceva Vasco tanto tempo fa e, anche se non gli ho mai creduto, forse aveva proprio ragione.
Mentre l’ipnotizzante movimento del tergicristallo tenta di liberare il parabrezza dalla cascata d’acqua con il quale il cielo prova a lavare tutti i mali del mondo, il ricordo di ciò che non c’è più torna a bussare prepotentemente alla porta della mente. Il telefono vibra, segnalando l’arrivo di qualcosa che forse è meglio rimanga laggiù, in fondo al pozzo del tempo che passa.
La tranquillità domenicale di un pomeriggio scuro come la notte buia e tempestosa di Linus, viene sconvolta dal rumore sordo e prepotente delle gocce di pioggia che picchiano sulle lamiere delle auto. Poca gente in giro e tutta di fretta. Sopra alle nuvole, aerei velocissimi puntano verso mete lontane, sotto invece il riverbero arancione dei lampioni si riflette sulla strada fradicia. L’aria calda presente all’interno dell’abitacolo dell’auto si scontra con quella fresca confinata all’esterno, formando sul vetro una condensa spessa un dito, sulla quale la tentazione di scrivere è più forte del buonsenso. A guardarla bene, sembra una lavagna.
E tutto ad un tratto, incurante della pioggia che batte, del telefono che vibra, degli aerei che volano e della gente che passa, è automatico riscoprirsi bambino, in piedi accanto alla cattedra impegnato a scrivere con il gesso bianco sulla lavagna di ardesia nera (colori fantastici, anche le elementari tifano Robur) una serie di parole per le quali è previsto l’utilizzo della doppia consonante: giacchetto, acquazzone, bidello, assistente… La voce della maestra impreziosisce il ricordo.
Per un secondo tuttavia torni alla realtà: il display del cruscotto segna le 17.45 del 6 Novembre 2016. Prima del fischio d’inizio della partita c’è ancora tanto tempo per sognare.
Nella realtà parallela ti senti soddisfatto delle parole scritte, guardi sicuro l’insegnante - una donnona robusta con una voce da nonna ed un carattere da strega, nascosta dietro ad un paio di occhiali con la montatura in stile Adriana di Rocky, che vorrei tanto fossero di tartaruga e che torneranno nel tempo a tormentare gli incubi di tutti i suoi allievi – la quale, non contenta, chiede: "Come si chiama il contrario di doppia?". Panico, terrore, rabbia.
Un tuono squassa il presente rendendo la realtà paurosa come il sogno.
Osservi la maestra per un tempo interminabile. Poi giri lo sguardo verso la faccia sbiancata dei compagni, a distanza di anni ricordi ancora tutti i loro cognomi a memoria: dalle espressioni capisci che non potranno aiutarti. Dentro all’abitacolo, come in preda ad incubo troppo reale, ti contorci sul seggiolino. Conosci la risposta, è lì dentro di te intrappolata nell’abbaino di un qualche meandro della memoria, ma non ti viene. Fa capolino, occhieggia, ride dispettosa. Scivola veloce lungo la lingua, ma un secondo prima di staccarsi dalle labbra ed uscire fuori, se ne ritorna nel baule della cose scordate. Mimando i movimenti di te bambino in piedi a fianco della cattedra, scrivi sulla faccia interna del vetro: emozione = una z “scempia!" Giacchetto = due c “doppia!”. Come dopo il goal di Portanova all’Arezzo, ti verrebbe da fare il gesto dell’ombrello, ma ti contieni. Ritorni a guardare la maestra, che sorride benevola prima di dissolversi velocemente in una macchia di vapore, esattamente come le nuvole cariche di pioggia del presente che scappando verso sud scoprono un cielo blu, rischiarato da una luna gialla, impegnata a sbirciare di nascosto i vicoli del centro.
È tempo di muoversi, gioca la Robur. Telefono silenziato e vibrazione spenta, 90 minuti di attesa dopo di che possiamo alzare le mani al cielo. Vittoria: con doppia t e una sola r. Senza se e senza ma. Per una volta, i pochi spettatori sono tutti d’accordo: vincere è molto più bello che perdere. E anche un giorno da lupi pare Ferragosto. 
Dopo due sconfitte, si torna alla vittoria: una doppia e una scempia! Come con i Boeri, i cioccolatini riempiti di liquore alla ciliegia - acquistati al bar di nascosto dal nonno un secolo prima dei Mon Cherì – ne vinciamo una ogni tre: il bilancio è ancora negativo, più per il cuore che per la classifica, perché i numeri riescono a spiegare meglio ciò che l’anima non capisce, ma per il momento va bene così. Abbiamo perso ad Arezzo, ma almeno con Livorno e Carrarese l’onore è stato difeso. Una doppia e una scempia, come la M, scempia nei cognomi di Marotta e Mendicino, ma meravigliosamente doppia nel risultato finale. MM e tutti a casa.
Tornando verso l’auto, il ricordo pastoso della polvere di gesso mi invade le narici. Alzando gli occhi al cielo, una corona di stelle pare accompagnarmi verso il parcheggio, forse è la costellazione dell’”emozione” che mi accompagna dall’alto e forse, fermo sulla stella più luminosa, un ragazzo di ritorno da una partita sta incrociando il mio sguardo e osservandomi senza vedere si chiede: ma nella vita la felicità è sempre scempia o a volte è possibile riceverla doppia?

Siena – Carrarese: sognare non costa niente. Gli incubi invece non sono mai gratis. Fermi al centro della classifica, osserviamo il mondo che oscilla intorno a noi senza sapere bene se rompere gli indugi e puntare dritti verso l’alto, dimostrando a tutti di essere quelli di adesso, oppure se perdersi nuovamente in mezzo alle nebbie di un campionato anonimo e noioso. Avanti Robur, la gente ha bisogno di te per tornare ad emozionarsi.

Tutti insieme uniti avanzeremo. 



Mirko

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