C'era una volta in Itaglia una cosa che si chiamava... aspettate eh... ce l'ho qui sulla punta della lingua... qualcosa tipo "magistrale"... oh com'era via... magi... ah sì, magistratura!
Poi, da due anni a questa parte, questa magistratura mi pare che non ci sia stata più. O meglio, c'è stata, ma per dare retta solo al Potere o per reprimere i poveri cristi.
Leggo qualche giorno fa di una sentenza del giudice Roberto Beghini del Tribunale di Padova e per un attimo un barlume di speranza germoglia nella mia anima.
La sentenza è importante perché mette ben in evidenza l’irrazionalità della norma sull’obbligo vaccinale e la violenza connessa alla conseguente sospensione dell’attività lavorativa ed alla relativa interruzione della retribuzione. Essa inoltre affronta un altro tema che in pochi mi pare abbiano ben chiaro, ovvero un inconcepibile e terrificante problema di discriminazione e di quello che possiamo definire come “bullismo di Stato”., per mano in primis di Ministri freak dall'evidente deriva psicotica e sociopatica. Infatti, adibire ad esempio ad altre mansioni un dipendente, docente o un operatore sanitario che sia, si configura come atto discriminatorio. Se un vaccinato o un non vaccinato possono contagiarsi o contagiare allo stesso modo, non si vede perché il non vaccinato, e solo lui, debba essere costretto a farsi il tampone ogni due giorni per poter stare sul luogo di lavoro; dunque, il tampone o lo fanno tutti o non lo fa nessuno.
Le mie parole tuttavia non rendono bene quanto il giudice scrive nella sua sentenza, per cui passo la parola a lui medesimo. Vi invito a leggere.
Si tratta del caso di una operatrice sociosanitaria, sospesa poiché non aveva ottemperato all’obbligo vaccinale, che ha adito il Tribunale di Padova chiedendo di “essere reintegrata in servizio, anche con mansioni inferiori, eventualmente anche a condizioni di sottoporsi a tampone rapido ogni due giorni oppure anche ogni giorno, con pagamento di tutte le retribuzioni arretrate. Dal punto di vista del periculum in mora, espone di essere madre di due figli, di cui uno minore, e di essere onerata dei ratei di un mutuo ipotecario ottenuto per l’acquisto dell’abitazione principale”. Ricordiamo che l’obbligo vaccinale per gli operatori che lavorano in strutture residenziali, sociosanitarie è stato prorogato fino al 31.12.2022.
Il giudice:
“ritenuto che non siano manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale che seguono (pacifica la loro rilevanza, poiché sulla base della predetta normativa, il ricorso andrebbe respinto, mentre se le questioni di legittimità fossero fondate, sarebbe accolto”.
“ritenuto che sussista il dubbio che dette norme non siano conformi all’art. 3 Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, né all’art. 32 Costituzione. Va all’uopo ricordato che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il diritto alla salute sub specie diritto all’autodeterminazione terapeutica, può trovare limitazione solo nei casi in cui sia necessario tutelare l’interesse della collettività, poiché, in caso contrario, ogni persona è libera di decidere se sottoporsi o meno a trattamenti sanitari, anche a costo di conseguenze letali. Ebbene, nel caso di specie, è chiaro che la vaccinazione è imposta al lavoratore non a tutela della salute propria, ma di quella altrui (in particolare, quelle delle persone “fragili” della struttura, in gergo “ospiti”) (…) nondimeno, a ben osservare, l’obbligo vaccinale imposto ai lavoratori in questione non appare idoneo a raggiungere lo scopo che si prefisse, quello di preservare la salute degli ospiti: e qui risiede l’irragionevolezza della norma ai sensi dell’art. 3 Costituzione. Può infatti considerarsi notorio il fatto che la persona che si è sottoposta al ciclo vaccinale, può comunque contrarre il virus e può quindi contagiare gli altri. Può dunque notoriamente accadere, ed effettivamente accade, come conferma l’esperienza quotidiana, che una persona vaccinata contragga il virus e contagi le altre persone (vaccinate o meno che siano). Come emerge dai dati forniti dal Ministero della Salute (…) Lo stesso Ministero della Salute, inoltre, dichiara tassativamente falsa (cd fake new) l’affermazione secondo cui “Se ho fatto il vaccino contro Sars-CoV-2 e anche il richiamo con la terza dose non posso ammalarmi di Covid-19 e non posso trasmettere l’infezione agli altri”. È quindi assodato che il mero fatto che un lavoratore si sia sottoposto al vaccino, non garantisce che egli non contragga il virus e che quindi, recandosi sul luogo di lavoro, non infetti le persone con cui ivi viene a contatto, nella specie gli ospiti della struttura sanitaria. Di qui, come detto, il dubbio sulla ragionevolezza dell’imposizione dell’obbligo vaccinale in questione: imposizione non idonea “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”. Sempre come dimostra la comune esperienza, il metodo attualmente più sicuro per impedire che un lavoratore contagi le altre persone presenti sul luogo di lavoro, è invece quello di avere la ragionevole certezza che egli non sia infetto: ragionevole certezza che, come visto, non può essere data dalla vaccinazione, bensì dalla sottoposizione periodica del lavoratore al “tampone” che garantisce, sia pure solo temporaneamente, che egli, nei successivi 2-3 giorni in cui si reca al lavoro, non abbia contratto il virus. Non sembra allora condivisibile quella giurisprudenza secondo cui “il tampone non protegge dal virus ma al più lo rileva, ed anche la rilevazione è comunque dubbia, perché il contatto col virus potrebbe avvenire anche un minuto dopo l’effettuazione del tampone e la rilevazione del virus richiede comunque un tempo di latenza; senza considerare lo stress cui le strutture sanitarie sarebbero sottoposte se si richiedesse una sistematica verifica a mezzo tampone di tutti i lavoratori, sulla premessa della inefficacia della vaccinazione”. La tesi non persuade perché resta il fatto che la persona vaccinata, che non si sia sottoposta al tampone, può essere ugualmente infetta e può quindi ugualmente infettare gli altri: la garanzia che la persona vaccinata non sia infetta, è pari a zero. Invece la persona che, pur non vaccinata, si sia sottoposta al tampone, può ragionevolmente considerarsi non infetta per un limitato periodo di tempo. In tal caso, la garanzia che ella non abbia contratto il virus, non è assoluta, ma è certamente superiore a zero. Nessun dubbio che il tampone accerti l’inesistenza della malattia solo alla data in cui viene effettuato; ma ciò costituisce un dato comune a tutti gli accertamenti diagnostici e tale è il motivo per cui esso deve essere ripetuto periodicamente. La garanzia fornita dal tampone, ripetesi, è senz’altro relativa; ma quella data dal vaccino è pari a zero. (…)
(…) passando ora al sindacato costituzionale di ragionevolezza in rapporto alle conoscenze scientifiche ed alla realtà fattuale (…) non appare manifestamente infondato il dubbio che l’introduzione dell’obbligo vaccinale per i lavoratori del settore in esame, costituisca una misura inidonea art. 3 Cost. - e quindi irragionevole ex cit. a raggiungere lo scopo che si prefigge: evitare la diffusione del virus nell’ambiente di lavoro, precisamente alle persone fragili, ospiti della struttura. La norma censurata pertanto, sembra violare l’art. 3 Cost., poiché, allo scopo di evitare la diffusione del virus, impone al lavoratore un obbligo inutile e gravemente pregiudizievole del suo diritto all’autodeterminazione terapeutica ex art. 32 Cost., nonché del suo diritto al lavoro ex artt. 4 e 35 Cost., prevedendo la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale: obbligo che non si pone in necessaria correlazione con la finalità di evitare il contagio e di tutelare la salute dei terzi, vale a dire la salute pubblica. Sembra quindi doversi concludere che il bilanciamento tra i diritti costituzionali coinvolti, sia stato operato dal legislatore, che pure gode di ampia discrezionalità, in maniera manifestamente irragionevole rispetto alla finalità perseguita. Anche dal punto di vista del diritto dell’Unione europea (…) la normativa italiana che sospende drasticamente dal lavoro e dalla retribuzione il lavoratore che non intenda vaccinarsi, sembra violare anche il principio di proporzionalità sancito dall’art. 52, primo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, secondo cui “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui” (…)
Secondo la giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione, il rispetto del principio di proporzionalità presuppone l’adempimento di tre condizioni cumulative: attitudine, necessità e proporzionalità in senso stretto. Per attitudine, si intende l’idoneità della misura a perseguire la finalità prefissata. La condizione di necessità esige che la misura presa costituisca l’opzione arrecante il minor pregiudizio possibile agli interessi in causa. Infine, il sacrificio imposto dalla stessa deve poter essere ragionevolmente esigibile (…) Nella specie, la disciplina italiana, che sospende drasticamente dal lavoro e dall’intera retribuzione il lavoratore che non intende vaccinarsi, senza prevedere alcuna soluzione alternativa o intermedia, sembra violare il principio di proporzionalità sotto tutti e tre i profili, perché, come visto, non è necessaria né raggiunge lo scopo di evitare il contagio, ed impone al lavoratore un sacrificio all’evidenza completamente insostenibile, privandolo integralmente e drasticamente dell’unico mezzo che consente a lui ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa (…) Ed infine, l’obbligo vaccinale, oltre ad apparire irragionevole e sproporzionato, sembra anche contrario all’art. 32 Cost., poiché, come visto, non previene il contagio e non tutela quindi la collettività (nella specie, i soggetti fragili), finendo quindi col violare il diritto all’autodeterminazione terapeutica sancito da tale precetto costituzionale;
- evidenziato, sotto tale ultimo profilo, che, come di recente evidenziato dalla dottrina, l’art. 32 Cost. racchiude una molteplicità di significati: il diritto all’integrità psicofisica e a vivere in un ambiente salubre, ma anche il diritto alle prestazioni sanitarie, alle cure gratuite per gli indigenti e quello di non ricevere trattamenti sanitari, se non di carattere obbligatorio, volti a tutelare non già solo il destinatario, ma soprattutto la collettività, come avviene nel caso delle vaccinazioni o degli interventi effettuati per la salute mentale. (…) In materia di vaccinazioni obbligatorie, esiste un indirizzo costante del giudice delle leggi, in base al quale l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute della singola persona (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto delle altre persone e con l’interesse della collettività. In particolare, la Corte ha precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost. a varie condizioni, tra cui quella che il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri. (…) è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale. (…) Ciò che non accade nella fattispecie oggetto del presente procedimento, poiché, come si è visto, i fatti dimostrano che la vaccinazione obbligatoria non impedisce di contrarre il virus, né impedisce che il lavoratore infetto contagi le persone con cui viene a contatto sul luogo di lavoro. Da ciò consegue che, l’imposizione al lavoratore dell’obbligo vaccinale, non essendo idonea a preservare la salute degli altri, non sembra conforme all’art. 32 Cost. Alla luce di tutte tali considerazioni, non può essere condivisa l’affermazione di taluna giurisprudenza secondo cui “l’utilità della vaccinazione si apprezza non solo in termini di minore rischio di diffusione della pandemia, ma anche in termini di minore gravità della malattia e specialmente di minore rischio di ospedalizzazione; con conseguente maggiore tutela del personale sanitario, che non può sottrarsi al contatto con la persona malata, e minore aggravio dei ricoveri ospedalieri, in un contesto di risorse limitate”. Il vaccino, ripetesi, non impedisce il contagio e non tutela quindi la collettività (nella specie, persone fragili), ma solo la persona che accetta di sottoporsi. Quanto al dedotto “aggravio dei ricoveri ospedalieri in un contesto di risorse limitate”, tale rilievo relativo alla finanza pubblica, non sembra sufficiente a derogare ai citt. principi vigenti in materia di diritto all’autodeterminazione terapeutica, in relazione ai quali l’art. 32 Cost. sembra prevedere la possibilità di deroga solo a tutela della salute pubblica, ma connesse alle spese sanitarie”.
(...) visti gli artt. 669 octies e 700 c.p.c. accoglie il ricorso ed ordina alla resistente di far riprendere immediatamente il lavoro alla ricorrente, a condizione che a condizione che ella si sottoponga a proprie spese, per la rilevazione di SARS-COV-2, al test molecolare, oppure al test antigenico da eseguire in laboratorio, oppure infine al test antigenico rapido di ultima generazione, ogni 72 ore nel primo caso ed ogni 48 negli altri due. Compensa le spese del procedimento. Si comunichi.”
Padova, 28 aprile 2022
Il giudice
Roberto Beghini
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