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sabato 23 settembre 2017

La stanza della foto

Il bimbo concluse la sua corsa a pochi passi dal signore canuto appoggiato ad un grosso leccio e, senza aspettare di riprendere fiato, esclamò: "Hai visto che goal, nonno?".

E indicando un gruppetto di bambini poco più grandi di lui, attese speranzoso.
"Sei stato bravissimo amore mio", rispose il vecchio con la sua voce profonda e cavernosa, sollevandolo senza sforzo fino ad incontrare il suo sguardo.
"Con chi gioca la “tua” Robur domenica, nonno?", domandò tutto d’un tratto il piccolo, mentre cercava di liberarsi dall’abbraccio.
Divertito, l’anziano signore rispose: "La “nostra” Robur domenica gioca contro l’Alessandria. Squadra piemontese molto tosta".
"Alessandria?", replicò il bambino. "Come la mia compagna di banco?".
Il vecchio, accarezzando i capelli del nipote, sorrise: "No, cucciolo mio. Quella è Alessandra, la figlia di Gianni, quel signore della Lupa che abbiamo incontrato questa mattina. La squadra invece è Alessandria, con la i".
Il bimbo, perplesso, squadrò il nonno da capo a piedi, prima di chiedere: "E che squadra è l’Alessandria?".
Appoggiandolo a sedere sulle sue ginocchia, il vecchio cominciò a parlare o forse a ragionare a voce alta. "Non so bene per quale motivo, ma pensare di dover affrontare l’Alessandria mi fa venire alla mente un calcio di altri tempi. Dove la musica di un grammofono gracchiante riempiva la grande sala da pranzo del primo piano e sottili righe di fumo azzurrognolo si innalzavano da un posacenere di cristallo, mentre una coppia ballava lentamente un ritmo strano, allegro e compassato allo stesso tempo: un po’ più veloce forse del valzer e decisamente più lento di un rock and roll. Lei, sognante e bellissima, avvolta dentro un abito lungo color cremisi, lasciava che le spalle scoperte mettessero in risalto la linea perfetta della bocca, definita da uno strepitoso paio di labbra dello stesso colore della stoffa del vestito, mentre lui, doppio petto scuro e tanta brillantina, cercava di educarle una ciocca di capelli un po’ troppo riottosa, sistemandogliela un po’ alla meglio dietro l’orecchio. E ballando le sussurrava parole dolci, ripetendo di tanto in tanto le strofe malinconiche della canzone. I loro piedi, tanto vicini quanto diversi, si avvicinavo e si allontanavano, come il mare sulla battigia. E ogni qual volta che le punte delle scarpe finivano per sfiorarsi, lui avvertiva una scarica elettrica dietro alla nuca, tra la fine della schiena e l’inizio del collo. Ed erano proprio quelli i momenti in cui capiva come il suo mondo iniziasse e finisse dentro quella stanza. L’amore non mi limita, pensava. L’amore mi rende migliore. E guidandola in una piroetta, lasciava che il profumo della ragazza gli riempisse il naso, nel disperato tentativo di memorizzarlo, per poi poterlo tirare fuori nel lunghi pomeriggi invernali, durante i quali la solitudine avrebbe grattato alla porta della sua camera come un gatto affamato. Alle pareti, quadri di nature morte e paesaggi autunnali ricoprivano la carta da parati a fiori, mentre grandi lampadari illuminavano la stanza, lasciando in penombra un buffo mobiletto stile rococò, sul quale campeggiava una foto in bianco e nero di due uomini in braghe di tela che correvano dietro ad una palla di cuoio spesso calpestando un prato spelacchiato. Il cielo grigio ricalcava perfettamente il colore della maglia di lana grezza di uno dei due, mentre l’altro, fiero e orgoglioso, quasi sapesse di essere fotografato, fronteggiava l’avversario a testa alta, guardandolo dritto negli occhi, protetto soltanto da una leggera “corazza” a strisce bianconere. E mentre la coppia ballava, i due atleti parevano studiarsi, quasi frenetici nel loro immobilismo. Come una partita a scacchi, sembravano più impegnati a prevenire la mossa dell’avversario piuttosto che pensare ad attaccare. Quella foto era proprio un mistero. Nessuno degli abitanti della casa sapeva effettivamente come fosse finita lì, né tantomeno chi fossero i due uomini. Come tutte le cose inutili, alle quali poi ci si affeziona, un giorno era comparsa tra le mani di zio Oreste, il quale l’aveva appoggiata nel punto in cui si trovava adesso senza dire niente a nessuno. Successivamente, in oltre dieci anni, nessuno l’aveva più toccata. Rispetto ai due atleti immortalati, giravano tante leggende, tutte verosimili, molte inventate. La perpetua del prete sosteneva che quello in maglia bianconera fosse un toscanaccio venuto da Siena, che aveva fatto innamorare la figlia di Oreste. Il cuoco invece sosteneva, giurando sulla vita dei figli e baciandosi la punta delle dita, che il grigio fosse un sabaudo sciupa femmine, cresciuto ad Alessandria e famoso per la sua vita libertina. Il ‘bel furbo’ lo chiamava. Aggiungendo inoltre che secondo alcuni voci di corridoio poteva trattarsi addirittura di un figlio illegittimo di Oreste, avuto con la moglie del sindaco, durante una relazione clandestina ai tempi della grande guerra. Ma più gli anni passavano e più il mistero s’infittiva. Altri ancora millantavano la possibilità che i due della foto fossero in realtà la stessa persona e che a creare quello strano effetto ottico fosse stata una diavoleria dello zio Oreste ricevuta dai soldati americani in cambio di qualche favore poco nobile. E piano piano le voci diventavano leggende".
Il vecchio distolse per un attimo lo sguardo da un piccolo fiore giallo, che da qualche secondo aveva attirato la sua attenzione e sospirando profondamente ritornò alla sera in cui, uscendo dalla ‘stanza della foto’, si convinse definitivamente che l’amore, pur rendendolo migliore, lo stava lentamente consumando. E passandosi la mano tra gli esili capelli bianchi, ebbe la brevissima sensazione di sentire ancora il profumo della brillantina.
"Nonno, mi ci porti domenica allo stadio?", chiese il bambino.
"Sentiamo prima la mamma, tesoro mio", rispose l’uomo. E lisciandosi i pantaloni come a voler stirare le piccole pieghe del tessuto, cambiò posizione sulla panchina; in attesa della solita replica scocciata del nipote. Che tuttavia non arrivò. 
"Anche la mamma nell’"almadio" c’ha un vestito rosso. Lo sai? Mi ha detto che glielo ha regalato la nonna prima di morire".
Come inghiottito dalla malinconia del ricordo, il vecchio sorrise, ricacciando indietro una lacrima dispettosa.

Siena - Alessandria: puntuale come un orologio svizzero, dopo la quarta arriva la quinta. Quinta come la marcia dell’auto o la taglia abbondante di un reggiseno, la classe finale delle superiori o la sinfonia di Beethoven. Se è vero come è vero che prima o poi tutti i nodi devono venire al pettine, eccoci giunti al primo bivio della stagione. Uscendo dallo stadio domenica sera avremo certamente una visione più chiara del nostro futuro, nel quale auspichiamo di occupare un posto da protagonisti indiscussi, come la storia degli ultimi venti anni ci dovrebbe ricordare. Forza Siena, torniamo a riempire il Rastrello.

Tutti insieme uniti avanzeremo.


Mirko

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