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venerdì 12 maggio 2017

Barbicone (parte seconda)

La volta scorsa ci eravamo lasciati proprio all’inizio della rivolta che ha reso celebre Barbicone, e da qui riprendiamo il discorso per raccontare succintamente i fatti, secondo quanto narrato dal cronista Donato di Neri.

Nel luglio del 1371 “li lavorenti e scardazieri dell’Arte di lana di Siena”, in un momento di crisi della produzione tessile, entrarono in contrasto con i loro padroni, rivendicando salari più adeguati; ma soprattutto chiedendo che fosse il Comune, in cui sedevano ben otto Riformatori almeno sulla carta favorevoli alle loro istanze, e non il Consiglio dell’Arte, a decidere in materia salariale. Come prevedibile, gli imprenditori tessili risposero picche, e così i salariati si radunarono sotto Palazzo Pubblico per essere ascoltati dal governo. Non vennero ricevuti, probabilmente perché prevalse la linea dura dettata dalla parte minoritaria composta dai rappresentanti dei Dodici e dei Nove. Allora “féro gran romore e minaccie, e volevano uccidare de’ loro maestri di lana e altri. E per questo fu preso Cecco da le Fornaci e Giovanni di monna Tessa e Francesco d’Agnolo detto Burbicone, e erano scardazieri de la compagnia del Bruco”, identificati come i capi dell’insurrezione. Come accennato la volta scorsa, nella cronaca trecentesca il nomignolo del nostro protagonista, qui citato per la prima e unica volta, è Burbicone, che si trasformerà in Barbicone con la cinquecentesca “Historia” del Malavolti e la quasi coeva del Tommasi, tramandandolo in questa forma a futura memoria. Impossibile stabilire quale fosse il soprannome autentico né i motivi della sua successiva corruzione, anche perché, come vedremo più avanti, ne esiste una terza versione! 
I tre arrestati furono interrogati e torturati dal Senatore, un ufficiale comunale che aveva ereditato dal Capitano della Guerra competenze in materia giudiziaria, soggiornando per questo nel Palazzo del Capitano posto sull’omonima via. Questi riuscì a fargli confessare reati per i quali era prevista la pena di morte, e forse anche il collegamento tra il Bruco e la fazione maggioritaria del governo. Ragion per cui, il 14 luglio di quel 1371, un lunedì, “tutti quelli de la compagnia del Bruco con altri giurati” accorsero sotto il palazzo per chiederne l’immediata liberazione, minacciando di dar fuoco allo stesso. Non di Palazzo Pubblico, però, come talvolta si trova scritto, ma del Palazzo del Capitano vicino al Duomo. Anche gli scontri successivi con i soldati del Senatore, alcuni dei quali furono uccisi e “alquanti feriti”, si svolsero all’ingresso della sua residenza, quindi in via del Capitano. Resosi conto che “la città era tutta in arme”, il Capitano del Popolo uscì da Palazzo Pubblico “col gonfalone co’ le trombe innanzi, e andò al palazo del sanatore”, dove la situazione lo convinse ad adoperarsi per la scarcerazione dei tre, che infatti “furo lassati”. Appena ottenuta la loro liberazione, “la compagnia del Bruco andoro con gran romore al palazo de’ signori, gridando: «Siene tratti e’ Dodici e’ Nove»”. Chiedevano, insomma, l’uscita dal governo dei tre rappresentanti dei Nove e dei quattro Dodicini, per sostituirli con sette esponenti del popolo minuto, a riprova che il reale obiettivo della compagnia travalicava la mera, ancorché legittima, rivendicazione salariale ed era essenzialmente di natura politica, non lasciando più dubbi circa la contiguità con i Riformatori. In effetti il rimpasto si concretizzò, consentendo a quest’ultimi il controllo totale del governo.
Donato di Neri non cita i nomi dei sette popolani subentrati, a differenza del Malavolti, che menziona tra questi un certo Agnolo di Francesco. Per molti sarebbe proprio Barbicone con il nome “invertito”, ma in realtà un altro documento lo denomina Agnolo di Francesco detto “Angelo Bizzocchi”, escludendo tale eventualità. Ben consapevole dell’eccezionale risultato conseguito, il Bruco se ne andò “romoregiando per tutta la città, gridando: «Muoia li Dodici e viva el popolo»”. A fine luglio gli insorti subirono una pesante ritorsione dalla fazione avversa, ma seppero reagire e, spalleggiati ora anche dai Nove, sbaragliarono i nemici e mantennero la propria rappresentanza all’interno del governo comunale.
Scorrendo la cronaca trecentesca, dunque, non c’è traccia della famigerata defenestrazione di alcuni dei governanti “sollevati” dall’incarico, così come non ne parlano Malavolti e Tommasi due secoli dopo. Ma allora è vero oppure no che, una volta libero, Barbicone sarebbe entrato con la forza in Palazzo Pubblico insieme ai suoi compagni e avrebbe massacrato i Nove e i Dodici al governo, scaraventandone alcuni in Piazza dalle trifore? Ed è vero che la folla trionfante ne avrebbe calpestato i cadaveri, uno addirittura sbranato? Considerata la puntualità con cui Donato racconta quei giorni e soprattutto gli autori delle violenze, delle quali, giova ricordare, fu verosimile testimone diretto, il celeberrimo episodio sembra solo il frutto di riletture successive, oggi assai popolari. Originate probabilmente da un’interpretazione troppo estensiva di frasi che il cronista attribuisce direttamente ai membri della compagnia, quali «siene tratti e’ Dodici e’ Nove» e «muoia li Dodici e viva el popolo».
Precisato tutto ciò, è allora lecito domandarsi: se Barbicone non fu autore del gesto che nella vulgata comune dei giorni nostri lo ha fatto assurgere a simbolo non tanto, e non solo, di rivendicazioni proletarie ante litteram, ma addirittura della difesa popolare delle libertà comunali, perché è diventato una figura leggendaria così radicata nella memoria cittadina? Certo, fu uno dei capi della rivolta e tra i più attivi, avendo tentato di uccidere i “maestri di lana” e finendo in carcere per questo, ma per il resto si stenta a capire perché la storia popolare abbia affidato proprio a Barbicone un ruolo di primattore che né la cronaca trecentesca né gli eruditi dei secoli seguenti gli riservano. Anche perché la sommossa del 1371 è stata per secoli minimizzata dalla élite colta e intellettuale della città, fin quasi a cassarla del tutto. Gli altri due compagni arrestati, ad esempio, compariranno di nuovo sulla scena cittadina negli anni seguenti, mentre di Barbicone non sapremo quasi più niente. Forse era lui quel Francesco di Agnolo di Simone che alla fine del 1368 era entrato nel Consiglio dei Riformatori, e quasi certamente è da identificare nel Francesco d’Agnolo detto Berbicone (stavolta con la -e, tanto per ingarbugliare ancor più la matassa) che nel 1384, ancora vivo, pagò 150 lire di tasse come residente nel popolo di San Giovanni. E anche all’interno del Bruco non sembra aver ricoperto alcun incarico di rilievo. Nella cronaca si specifica chiaramente che in quel frangente il capitano della compagnia era tal Ferraccio, soprannome di Francesco di Andrea, anch’egli menzionato spesso in quel periodo. Il quale, non a caso, si macchiò di una delle violenze più efferate che caratterizzarono la rivolta, l’uccisione in Pellicceria (Banchi di sopra di oggi) di Nannuccio di Francesco, Capitano del Popolo fino a pochi mesi prima, reo di aver “fatto molte cose sconcie a pititione de’ Dodici e de’ Salimbeni, quando fu capitano”. È allora possibile che la fortuna di Francesco di Agnolo detto Barbicone derivi proprio dall’alone di mistero che ne avvolge la figura. Terreno ideale per la creazione di un mito, orgogliosamente perpetuato soprattutto ad opera della Contrada che ha desunto il nome dalla compagnia artefice dell’insurrezione del 1371. Un evento della storia senese inizialmente osteggiato, se solo si pensa al rifiuto opposto nel 1882 dal Sindaco Luciano Banchi al testo di una lapide che i brucaioli volevano apporre in via del Comune, ritenuto troppo esplicitamente riferito ad una sommossa di plebe non degna “di lode né di memoria”, che non aveva lasciato traccia di sé, se non per aver “macchiato di sangue cittadino le vie di Siena”, ma che oggi è entrato di diritto nel patrimonio culturale di un’intera comunità.



Roberto Cresti

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