Ecco, il mio pomeriggio domenicale è stato interamente contraddistinto da una sensazione simile.
Pur essendo regolarmente seduto al mio posticino in Curva Guaspa, che ho scoperto con stupore non essere quello indicato nella tessera dell’abbonamento (che in realtà sarebbe giusto giusto dall’altra parte della tribuna), e aver provato un immenso piacere (si fa per dire...) ad ognuno dei tre goal con i quali la Robur ha avuto la meglio di una Viterbese in vena di regali manco fossimo a Natale, con la testa ero lontano. Guardavo senza vedere. Gridavo senza tifare. Esultavo senza gioire. E pensare che in passato tutto il mio mondo cominciava e terminava con un goal del Siena. Sarò stato io ad essere diverso? Forse. Sarà che crescendo si cambia e le certezze vacillano? Ci sta. Sarà che a forza di ingollare qualsiasi cosa adesso mi fa schifo tutto? È possibile. Sarà…
Una volta almeno, decine di anni fa (decine si fa per dire, diciamo un paio di manciate, che rende lo stesso l’idea pur restando sul vago), la sensazione di cui sopra l’avvertivo prima dei compiti di matematica, al catechismo mentre il prete faceva l’appello e tutte le volte in cui ricevevo un qualche colossale e clamoroso due di picche da un’esponente del gentil sesso, durante quei lentissimi momenti nei quali la malcapitata di turno si spremeva le meningi per inventarsi una scusa carina per non appesantire ulteriormente il mio ego ferito a morte. E scusate la divagazione ma sì, lo ammetto: in vita mia sono stato rimbalzato in talmente tanti modi diversi che adesso potrei pubblicarci un libro. E scrivendo “sono stato” non voglio minimamente far intendere che adesso non mi potrebbe ricapitare; semplicemente sono io che ho smesso di provarci. Più per rispetto nei miei confronti che per altro. Anche perché, farsi murare a 18 anni è un conto, a 38-quasi-39 è un altro. Tentare o fallire?
E così, a fine partita, per togliermi di dosso quella brutta sensazione di vuota incompletezza e noiosa delusione, sono andato a correre, sperando che le endorfine potessero fare effetto ancora una volta, ricolorando la realtà con sfumature diverse. È impressionante come cambia la visione delle cose dopo aver faticato. “Tutta la droga del mondo non vale un grammo della nostra adrenalina”, lessi un giorno all’ingresso del Papillon. Avrò avuto sì e no 16 anni e i miei mi lasciavano andare in discoteca soltanto la domenica pomeriggio. Ma io ci andavo solo quando il Siena giocava fuori casa. Comincio a correre e provo a dimenticarmi di tutto quello che è successo negli ultimi mesi. Dopo tutto però i tre punti sono arrivati, quindi sarebbe il momento di festeggiare. Anche i giocatori bianconeri devono averlo pensato, poco dopo il fischio finale. Il loro tentativo di venire sotto la curva tuttavia è apparso decisamente patetico e fuori luogo. Avete vinto ok, ma avete fatto soltanto il vostro dovere. Nessuno, a queste condizioni, vi dirà bravi. Mai più. Ma nonostante tutto, qualcuno applaudiva. Perché al peggio non c’è mai fine. Continuo a correre e capisco di farlo solo per voler dimenticare: sembro un alcolizzato in versione salutista. Corro, corro, corro. Il rombo del cuore adesso martella nelle tempie, la vista si appanna e i ricordi di distorcono.
Una volta almeno, decine di anni fa (decine si fa per dire, diciamo un paio di manciate, che rende lo stesso l’idea pur restando sul vago), la sensazione di cui sopra l’avvertivo prima dei compiti di matematica, al catechismo mentre il prete faceva l’appello e tutte le volte in cui ricevevo un qualche colossale e clamoroso due di picche da un’esponente del gentil sesso, durante quei lentissimi momenti nei quali la malcapitata di turno si spremeva le meningi per inventarsi una scusa carina per non appesantire ulteriormente il mio ego ferito a morte. E scusate la divagazione ma sì, lo ammetto: in vita mia sono stato rimbalzato in talmente tanti modi diversi che adesso potrei pubblicarci un libro. E scrivendo “sono stato” non voglio minimamente far intendere che adesso non mi potrebbe ricapitare; semplicemente sono io che ho smesso di provarci. Più per rispetto nei miei confronti che per altro. Anche perché, farsi murare a 18 anni è un conto, a 38-quasi-39 è un altro. Tentare o fallire?
E così, a fine partita, per togliermi di dosso quella brutta sensazione di vuota incompletezza e noiosa delusione, sono andato a correre, sperando che le endorfine potessero fare effetto ancora una volta, ricolorando la realtà con sfumature diverse. È impressionante come cambia la visione delle cose dopo aver faticato. “Tutta la droga del mondo non vale un grammo della nostra adrenalina”, lessi un giorno all’ingresso del Papillon. Avrò avuto sì e no 16 anni e i miei mi lasciavano andare in discoteca soltanto la domenica pomeriggio. Ma io ci andavo solo quando il Siena giocava fuori casa. Comincio a correre e provo a dimenticarmi di tutto quello che è successo negli ultimi mesi. Dopo tutto però i tre punti sono arrivati, quindi sarebbe il momento di festeggiare. Anche i giocatori bianconeri devono averlo pensato, poco dopo il fischio finale. Il loro tentativo di venire sotto la curva tuttavia è apparso decisamente patetico e fuori luogo. Avete vinto ok, ma avete fatto soltanto il vostro dovere. Nessuno, a queste condizioni, vi dirà bravi. Mai più. Ma nonostante tutto, qualcuno applaudiva. Perché al peggio non c’è mai fine. Continuo a correre e capisco di farlo solo per voler dimenticare: sembro un alcolizzato in versione salutista. Corro, corro, corro. Il rombo del cuore adesso martella nelle tempie, la vista si appanna e i ricordi di distorcono.
Ad un tratto però mi fermo a pensare. Respiro con violenza profonde boccate di aria, come quando il dottore ci ascolta i polmoni con quel buffo apparecchio di gomma grigia collegato alle orecchie e, appoggiandoci sulla pelle della schiena quell’aggeggio di metallo gelido, ci provoca un’ondata di brividi che dall’osso sacro si propagano fino alla nuca. E soprattutto aspetto. Aspetto che il sangue porti un po’ di ossigeno fresco al cervello annebbiato. Sangue venoso e sangue arterioso. Ricordo lo schema del corpo umano visto sul libro di scienze delle medie. Il primo è rosso, il secondo è blu. Come gli omini del biliardino. E una volta che il cervello ha ritrovato la sua normalità, comincio a pensare. E incredibilmente mi ritornano i mente i due di picche. Imbarazzato soltanto al pensiero, provo ancora vergogna. Poi però, una vocina si fa luce nella mia testa. E inizia a parlare: all’inizio è un sibilo lontano, come il fischio del treno dietro alla collina, ma piano piano comincia a martellare, implacabile. Distruggendo tutti gli altri pensieri. E nonostante tenti disperatamente di scacciarla, scappa a nascondersi nei punti più lontani della mia mente, per rispuntare fuori dopo pochi secondi, con più impeto di prima. E impertinente mi ripete: a proposito di due di picche, ma tentare non è l’unico modo per ottenere qualcosa? Da qualche parte mi si apre un file: se vuoi la luna, vattela a prendere, mi disse un giorno qualcuno, mentre sorridevo senza capire. Poi una sera, guardando il cielo, tutto mi fu chiaro. Ma oramai era tardi.
Tentare o fallire: dove sta la differenza? Se qualcuno tenta un impresa, nel lavoro, nello sport o in amore, e non riesce, viene bollato da tutti come un “fallito”, orribile parola che a torto assume soltanto valenze dispregiativa. E viene deriso. Invece secondo me uno che fallisce è soltanto un impavido che ha avuto il coraggio di provarci. Eccola la differenza: Paolo De Luca anni fa tentò e riuscì, nonostante tutto e tutti. Dopo la salvezza di Genova, quando poteva godersi il traguardo in santa pace, si mise immediatamente in discussione, accennando ad un qualcosa di magico che da lì a poco si sarebbe chiamato ‘lucida follia’. Spostare gli obiettivi, alzare l’asticella. Creare entusiasmo. Tentare o fallire. Fallire o tentare. Tentare per non fallire. Tutte caratteristiche assolutamente sconosciute all’attuale proprietà. Pronta a festeggiare il raggiungimento del niente, ma ancora latitante su progetti o futuro. Ma voi a Siena che ci fate? Perché dopo tutti questi mesi, siete ancora così distanti? Proviamo a diventare grandi insieme? Prendiamo quest’ultimo punto che manca e guardiamo avanti. Avete quattro mesi di tempo per dimostrarci il vostro attaccamento ai nostri colori, senza scuse questa volta però.
Tentare o fallire? Perché è nel momento in cui decidiamo di non provarci che decretiamo il nostro fallimento.
Siena – Viterbese 3 a 2: a volte basta veramente aprire gli occhi e guardare la scena da un’altra angolazione per farsi un’idea diversa della realtà. Chi dobbiamo ringraziare per questi tre punti, che al 28° del secondo tempo erano ancora un miraggio? Jawo, Marotta o qualche altro santo particolare? – 2 all’alba!
Tutti insieme uniti avanzeremo.
Siena – Viterbese 3 a 2: a volte basta veramente aprire gli occhi e guardare la scena da un’altra angolazione per farsi un’idea diversa della realtà. Chi dobbiamo ringraziare per questi tre punti, che al 28° del secondo tempo erano ancora un miraggio? Jawo, Marotta o qualche altro santo particolare? – 2 all’alba!
Tutti insieme uniti avanzeremo.
Mirko
Jawo of course
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