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venerdì 2 settembre 2016

Il soldato e la querce

Erminio era un soldato e, nei suoi 19 anni di età, questa era l’unica certezza che possedeva.
Durante l’autunno del 1914, freddo e piovoso come nemmeno i vecchi del paese ricordavano, la tranquillità della famiglia Giana fu improvvisamente interrotta da una serie di colpi secchi, assestati con violenza alla porta di casa.

All’ufficio postale era arrivata una lettera da Roma, l’Italia si accingeva ad entrare in guerra e l’esercito aveva bisogno di tutti. La notizia irruppe fra le mura di casa come una folata di tramontana, che sbatte le porte e spegne le candele. Erminio afferrò la lettera verde, che in tanti chiamavano “cartolina” e corse fuori. Voci di corridoio interne alla caserma avevano più volte anticipato il pericolo imminente di un conflitto contro un nemico più forte e meglio equipaggiato e, anche se non lo dava a vedere, in cuor suo aveva paura. Da mesi se ne stava solo ed in disparte, parlava di rado e solo quando era costretto. Non si faceva più vedere all’osteria di piazza e non c’era verso d’incontrarlo nemmeno la domenica a messa.
Appena aveva un po’ di tempo libero, senza farsi notare, scappava dal borgo dove era nato verso la fine del secolo precedente e costeggiando il Naviglio della Martesana – il canale che collegava il fiume Adda alla città di Milano - raggiungeva il grande albero di quercia posto a confine del comune di Gorgonzola. Incurante della nebbia, del sole rovente o del vento gelido, si sedeva ai piedi del grosso albero e rimaneva ore a sfogliare il piccolo vocabolario di latino con le pagine di carta ingiallita dal tempo e la copertina di pelle, avuto in regalo dal vecchio parroco nel giorno della prima comunione.
Erminio era un nome piuttosto diffuso all’inizio del novecento: tre consonanti e quttro vocali mischiate con cura. Semplice e facile da ricordare, si sposava con quasi tutti i cognomi. Durante una lezione di catechismo, quando era poco più di un bambino, aveva chiesto a Suor Beatrice cosa significasse il suo nome, ma la religiosa non gli aveva saputo rispondere. Don Alfio invece, l’anziano curatore della parrocchia, uomo di fede, cultura e appetito, lo aveva illuminato: "È un nome che risale al tempo dei Romani, il popolo che per primo unificò l’Italia e comandò su tutto il mondo. Deriva dal latino Herminius". Il ragazzo parve deluso dalla risposta. "E ditemi padre", replicò, "cosa me ne faccio di un nome così vecchio?". Guardandolo con tenerezza e accarezzandogli la testa, non sapendo cosa rispondere, il sacerdote mentì e per farlo si aggrappò alla sua antica passione per gli indovinelli, gli enigmi e i giochi di parole: "ERMINIO GIANA", disse alzando la voce, "non disonorare il nome che lo Spirito Santo ha indicato ai tuoi genitori. Tu sei una persona speciale, capace di donare amore a chiunque senza chiedere niente in cambio". E anagrammando il suo nome sentenziò: "Significa “AMERAI IN OGNI”.
Felice come non lo era stato mai in vita sua, Erminio corse a cercare la nonna materna, l’unica persona con cui riusciva a parlare liberamente dei suoi sogni. La sera stessa, prima di coricarsi, ripensò alle parole di Don Alfio e mentre si faceva il segno della croce decise che avrebbe imparato la lingua dei Romani. Da quel giorno la sua vita non fu più la stessa. Con gli anni divenne un ragazzo molto colto: studiava la storia, le scienze e la geografia, ma la cosa che più lo affascinava era sempre il latino: spaziava dai testi di botanica messi a disposizione dal farmacista, ai vecchi libri di preghiere rubati in sagrestia e adorava le omelie del vescovo durante il giorno della festa di Santa Caterina d’Alessandria patrona del paese, durante il quale nessuno lavorava, dalle montagne arrivavano i carri di legno trainati dai cavalli carichi di castagne e poteva rimanere sveglio fino a tardi a mangiare uva passa. 
Quest’anno tuttavia ci sarebbe stato ben poco da festeggiare: appena fuori dai confini nazionali infuriava la Grande Guerra e l’Italia era sull’orlo di tuffarcisi dentro. A 19 anni aveva scelto il suo destino: alpino. Anche se in cuor suo avrebbe preferito studiare e sposare Teresa, l’amore della sua vita, che lo aveva lasciato solo all’inizio dell’estate precedente per imbarcarsi insieme ai genitori su di un piroscafo diretto a Buenos Aires. Con le guance rigate da lacrime grosse come la pioggia di novembre e il cuore gonfio di dolore, arroccato sul campanile aveva visto il suo futuro scomparire assieme al piccolo carretto sul quale Teresa avrebbe raggiunto il porto di Genova. Senza di lei, niente sarebbe stato come prima. Nei giorni seguenti, durante i quali il tempo pareva sospeso tra sogno e realtà, aveva deciso di entrare nell’esercito e in pochi mesi era stato promosso a “sottotenente”. 
Seduto sotto la sua querce, intagliò con una puntone di ferro una forma circolare sulla corteccia: all’interno scrisse con cura il suo nome e quello di Teresa, mentre più in basso riportò l’antica bugia del parroco, che col tempo era diventata il suo motto: AMERAI IN OGNI. Poi si alzò, tolse le pieghe dai pantaloni di tela passandoci sopra una mano e partì per il fronte. 
Qualche mese più tardi, quando ormai l’estate reclamava il suo spazio, durante un'incursione tra le linee nemiche nei pressi del Monte Zugna, mentre con il suo reggimento tentava disperatamente di impedire all’Impero Austroungarico di impossessarsi di Trento, sentì un lacerante dolore all’addome. Incredulo, provò a tamponare la ferita con il palmo della mano destra, ma si accorse subito del foro profondo vicino all’ombelico, dal quale fuorusciva un fiotto di sangue rosso scuro che impregnava la camicia ed emanava un odore di morte. Il tempo a sua disposizione sulla terra stava terminando e la consapevolezza di essere giunto alla fine dei suoi giorni non gli fece paura. Con un po’ di fatica cercò riparo ai piedi di un grosso abete e seduto a guardare le Alpi, pensò ai suoi genitori, alla nonna, agli amici del paese, al vecchio sacerdote e a Teresa. Chiudendo gli occhi riuscì persino a vedere una grossa nave ferma sulla linea dell’orizzonte, nel punto esatto in cui il mare si fonde con il cielo. Vide una nuvola di fumo nero uscire dal camino più alto e in piedi sul ponte riconobbe una ragazza alta con i capelli castani e lo sguardo fiero degli italiani all’estero che lo stava salutando. Stringendo il vocabolario nella mano destra, tornò per l’ultima a volta con la mente alla sua quercia e sorrise pensando che in latino si dice ROBUR.

Robur Siena – Giana Erminio: una piccola cittadina lombarda, in segno di riconoscenza alla mamma che regalò i terreni destinati alla costruzione del campo sportivo, intitolò la squadra di calcio all’eroe locale, morto in guerra per fermare l’invasore. La famosa ed ex-ricca città toscana invece non ha ancora mosso un dito per onorare il suo “super presidente”, capace di sognare, di aprire gli occhi alle persone e di regalar loro la serie A. Nè una via, nè una piazza, nè un Mangia d’Oro: la vita a volte è proprio strana, ma per fortuna i supereroi non muoiono mai!


Tutti uniti insieme avanzeremo.


Mirko

4 commenti:

  1. TROVARE UN TIFOSO DELL'AMATA CHE SCRIVE COSI' BENE E RIESCE AD EMOZIONARE UN VECCHIO TIFOSO FUORI SEDE NON E' COSA DA TUTTI I GIORNI. GRAZIE DI CUORE. MASSI MO

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  2. Grande!
    Superlativo Mirko!
    La domanda che ti farei è: -"Hai fatto una ricerca sulla storia di Erminio Giana?"... MA NON TE LA FACCIO!
    Non voglio sapere niente! Mi basta quello che hai scritto...
    Avanti Robur!

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  3. È sempre un piacere leggerti!

    L'Irlandese Volante

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  4. bellissimo articolo Mirko
    non fermare mai questa tua mano che scrive !!! Bozzon

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