Nel buio della sera, lo scatto metallico della serratura comandata a distanza lacerò la quiete dell’elegante ingresso della palazzina anni '60, mentre i cardini di ferro del portone ruotavano di qualche grado verso l’interno, rivelando una sottile striscia di luce chiara.
Alessandro, irritato dalla risposta appena ricevuta, rimase qualche attimo a fissare i nomi scritti sui campanelli prima di decidersi ad entrare.
All’interno l’odore di muffa proveniente dal seminterrato si mescolava ai profumi di cucina: “Uhm…questa sera qualcuno mangerà indiano”, pensò. Da una piccola finestra affacciata sul giardino entrava un refolo di aria fresca che sapeva di erba tagliata: annusando un ricordo della sua infanzia, indugiò qualche istante osservando il vaso con la grossa pianta di limone addossata alle cassette della posta. Tra le foglie lucide, piccoli frutti verdi stavano lentamente crescendo, chiaro segnale dell’imminente arrivo dell’autunno. Con un sospiro lesse il cartello “Fuori Servizio” appeso alla porta dell’ascensore e bofonchiando qualcosa di incomprensibile prese la via delle scale.
Si considerava un ragazzo fortunato, o meglio: aveva tutto il necessario per esserlo. Pochi mesi dopo la laurea in legge era stato chiamato da uno dei più prestigiosi studi legali della città e adesso, appena trentenne, vantava già una discreta credibilità con i colleghi più anziani, con i quali spesso parlava di affari e giocava a calcetto. Dai tempi delle medie si portava dentro la passione per la Robur: la domenica sostituiva la cravatta con la sciarpa bianconera e correva in curva a tifare i suoi colori.
E poi c’era lei, Laura. L’unica ragazza per la quale era valsa la pena fare tutto. Si erano conosciuti da piccoli fra le brandine dell’asilo e praticamente erano diventati grandi assieme. Per anni si erano annusati di nascosto - trincerandosi dietro al banale “è soltanto un amico” - prima di capitolare di fronte ad un sentimento travolgente e molto più forte di loro. Questa sera l’avrebbe presentata ufficialmente a tutti: compiva 30 anni e oltre ai suoi genitori aveva deciso di invitare a cena anche la famiglia del suo titolare. In verità più che al suo capo, moriva dalla voglia di presentare Laura al figlio, con il quale da qualche mese condivideva l’ufficio e l’ambizione di diventare il numero uno dello studio. Ridestandosi dai pensieri rammentò di averlo contattato al cellulare almeno tre volte nel pomeriggio, ma sempre senza risposta.
Dopo un’eternità, arrivò finalmente al pianerottolo dell’appartamento della sua ragazza: la porta era socchiusa ma lei non era li ad aspettarlo. Scimmiottando Adriano Celentano ne "Il Bisbetico Domato" varcò la soglia, speranzoso di trovarla in piedi al centro del piccolo disimpegno, dal quale partiva il lungo corridoio imbiancato di fresco. Deluso dalla sua assenza, rimase un po’ interdetto non sentendo nè il rumore del phon nè tanto meno quello dei tacchi alti che picchiettavano sul pavimento. Nel piccolo salotto, la luce della piantana illuminava la foto della trasferta di Perugia, che sembrava risplendere di vita propria mentre nell’ambiente sfumavano le note di una canzone conosciuta… "Chiara ho visto un bel vestito tutto rosso fuori moda"… I Rats, pensò: quanti anni sono passati? Improvvisamente la vide seduta in silenzio e il cuore smise di battere.
Persa dentro un’immensa tuta grigia, giocherellava con una matita bicolore, tenendola tra indice e medio. Il trucco sfatto e i capelli in disordine le davano un’aria sconfitta. Nel silenzio della stanza, la canzone terminò e ricominciò nel giro di qualche secondo, in un loop autistico e snervante.
Alessandro, ripresosi velocemente dallo shock iniziale, non tentò nemmeno di nascondere il fastidio: "Cazzo fai ancora così? Dai che gli altri ci aspettano. Non vorrai farmi arrivare tardi proprio stasera?", aggiunse tentando di sorridere.
Lei, riemergendo lentamente dall’abisso dei suoi pensieri, si girò a fissarlo senza entusiasmo. I suoi occhi erano freddi ma il fremito delle labbra nascondeva un certo nervosismo. Quando parlò tuttavia, dalla sua voce non trasparve nessuna emozione. E fu una sentenza: "Sono stanca Alessandro". Silenzio. "Di te, di me, di noi. Non sopporto più niente di ciò che facciamo e non sopporto più niente di quello che siamo diventati. Sono aggrappata al ricordo di come eravamo tanto tempo fa. E questo pensiero mi manda in bestia! Dopo tutti questi anni mi sono resa conto che ogni singolo pezzetto della mia vita gira intorno a te e la mia non esiste più. Tu sei l’uomo ideale che tutte le donne mi invidiano. Il ragazzo giusto sempre al punto giusto. Dovrei essere felice per quello che ho, invece mi sento morire... Non ti amo più. Non lo so il perché, ma so soltanto che è così. Magari fra qualche anno capirò di aver fatto la più grande cazzata della mia vita, ma adesso è questo ciò che voglio. È finita a…". E giusto un attimo prima di chiudere la frase con la parola “amore” si morse la lingua. Poi leggermente più aggressiva continuò: "E non provare a fermarmi. Se siamo arrivati a tanto è anche colpa tua. Non ti sto chiedendo una pausa di riflessione. Vorrei soltanto che tu possa capire la mia volontà e assecondarla. Voglio una vita mia, nella quale possa amare senza limitarmi ad essere amata". Aveva deciso di essere cattiva per allontanarlo velocemente da lei. Non poteva permettersi di affrontarlo in un confronto aperto e rischiare di lasciarsi scappar detto qualcosa. Controllando gli effetti delle sue parole, capì di aver esagerato.
Alessandro si era afflosciato sul divano e adesso sembrava narcotizzato; teneva la testa stretta fra le mani, quasi a voler impedire alle proprie orecchie di sentire ancora. "Cos’è, uno scherzo o un incubo?", pensò fra di se il ragazzo. E raccogliendo tutta la dignità che gli rimaneva, cercò lo sguardo dell’assassina che stava uccidendogli la vita e notando la sua espressione di trionfo, capì di averla persa per sempre. In altre circostanze avrebbe avuto un milione di cose da dire: poteva attaccarla, ferirla, abbracciarla, offenderla, ma in quel momento tutti i suoi pensieri erano stati prosciugati da un vento invisibile e doloroso, che spirava dalla bocca aperta della donna amata. Era spiazzato e disperato: si sentiva vinto e terribilmente solo. La guardò e mettendo da parte la rabbia, le chiese senza voglia: "Come si chiama?". Pur travolto dagli eventi, era pur sempre una persona in gamba e – forse – aveva capito tutto.
L’esitazione con la quale lei rispose, irritandosi, gli fece intuire di essere sulla strada buona. Dopo qualche attimo di empasse Laura sbottò: "Ma ti senti? Ma come cazzo ragioni, stupido! Ti sto parlando con il cuore in mano, confessandoti di buttare all’aria la mia vita…".
"E la mia", aggiunse sottovoce Alessandro.
"E tu pensi subito a quello! Vaffanculo, vaffanculo, vaffanculo. Stronzo!".
Nel realizzare la situazione, Alessandro capì tutto: e la verità gli infuse nel cervello una forza nervosa sconosciuta. Alzandosi in piedi, le si avvicinò guardandola con occhi fiammeggianti: "Dimmi come cazzo si chiama! E poi mi dirai perché! Quanto tempo è che va avanti? Da quanto mi prendi per il culo? Non potevi dirmelo un mese fa vero? C’era il tuo compleanno e scommetto che volevi quel maledetto regalo!".
Un lampo di cupidigia passò negli occhi di Laura, che con prontezza disarmante mentì: "Fottiti! Non li terrò i tuoi regali!". Pronunciare quella frase le costò una fatica immensa: sperava vivamente di non doversi separare dai tanti oggetti costosi ricevuti negli anni.
Alessandro continuò: "Vorrà dire li butterai via. Io non li rivoglio! Te li ho fatti perché ci credevo. Credevo in te e credevo in noi!". Era furente e sentiva di dover lasciare immediatamente quella casa. "Prima che me ne vada, rispondi alla mia domanda: come-si-chiama?".
Laura non aveva mai visto quello sguardo, esitò ancora mentre il suo cervello mandava in onda l’immagine di lei stesa sotto di un uomo nudo e sconosciuto. "No Ale, non è così. Stai complicando soltanto le cose in questo modo! E poi non lo conosci…".
Silenzio. Entrambi rimasero impietriti: lui non voleva credere di aver sentito e lei non voleva credere di aver parlato. D’improvviso, la rabbia sparì dallo sguardo di Alessandro, che si lasciò cadere nuovamente sul divano, sconfitto per sempre. Con uno sforzo immane ruppe il silenzio: "Chi è?".
Lei capitolò: "Non c’è nessuno, te lo giuro! Ho incontrato un ragazzo oggi pomeriggio e ci sono finita a letto. Non so che cosa mi sia preso. Scusa. Ma se ti può consolare, avevo già preso la decisione di lasciarti...".
"Chi è?", la interruppe, scaldandosi nuovamente.
"Ale calmati, ti prego".
"Sono calmo e non chiamarmi Ale. Chi è?", gridò con tutto il fiato che aveva in gola.
Tormentandosi le mani Laura confessò: "Massimiliano! Credo si chiami Massimiliano. È quel ragazzo moro con l’impronta del gatto sul tettuccio dell’auto".
Alessandro, esausto, capitolò. Massimiliano, pensò: il figlio del mio capo…
Tuttocuoio – Siena: 3-0. Via, via via! – 1 e poi sarete liberi di far danni da qualche altra parte. Vergognatevi tutti. Ma un’annata così, a chi è servita? Boh…
Tutti uniti insieme avanzeremo.
Mirko
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