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domenica 8 giugno 2014

La Grande Bellezza di Daniele Magrini

Ho pensato subito a Daniele Magrini, mentre tempo fa partorivo questa idea di porre attenzione sul concetto di "Senesità".
Perché Daniele, a mio avviso, è uno di quelli che, per questioni personali o professionali, tale concetto lo ha già destrutturato e rielaborato. In maniera "giusta", probabilmente.
E che di tale processo ha iniziato uno sdoganamento, seppure in maniera elegante, come è lo stile della persona.
Ascolto sempre volentieri Daniele in ogni sua elucubrazione, sia che si tratti di sport, di cronaca cittadina, di Palio. E le cose che dice sono sempre non banali e critiche nel verso giusto, in senso costruttivo. Esiste costantemente in lui la fase della proposta, che ci serve tanto in momenti come questi.

Penso che ciò che scrive qui sotto sia un ulteriore tassello verso la comprensione di ciò che oggi siamo.




"Due cose mi sono apparse stimolanti in questa rilettura della "Senesità" offerta dal tuo blog. 

Il primo è il tema del riflusso, il secondo quello della tristezza percepibile a pelle. 
Il secondo è uno stato d'animo che non va generalizzato e che può dipendere anche da status personali. Però anche a me, qualche sera fa - sarà anche per via dei lampioni decisamente soffusi - è parso di cogliere tristezza nell'aria. 
Sarà che se ci aggiriamo per le nostre strade, via via che ci addentriamo dentro la città murata che declina verso la cinta - San Marco, i Pispini - troviamo quartieri deserti, senza più negozi di vicinato che si affacciavano sulla via. Né le nostre periferie brillano per dignità architettonica, se solo ci spostiamo verso Pescaia o viale Sardegna con il suo edificio nero e inquietante, o ci mettiamo a rimirare dai "giardini" di Porta Pispini, quella che una tempo era la vallata piena di orti e di verde che circondava il palazzetto Virtus, e ora è cemento. 
La bellezza è un rimedio alla tristezza, la bruttezza incita a rattristarsi. Noi che di bellezza nei secoli abbiamo tratteggiato la nostra città, adesso viviamo una contemporaneità che non riesce a lasciar traccia del bello.
E poi il riflusso della senesità è concetto stimolante. Intorno al quale, a mio parere, bisogna cominciare a ragionare - per frenarlo, il riflusso - in termini di negazione. 
Per esempio: non è senesità, nel terzo millennio, il culto di Montaperti. Anzi è una tentazione che ci rinchiude ancora di più dentro le nostra mura, in un perimetro ormai residuale di ricchezza, a causa degli eccessi di potere e incompetenza, accoppiati ad una politica che è stata basata sul controllo e sulla fedeltà, anzichè sulla valorizzazione dei meriti e delle competenze. Non è senesità, nel terzo millennio, perseguire il culto del "si fa come ci pare". Perché il bonus dell'autosufficienza ce lo siamo giocati in un decennio di ciechi stravizi e ora la sopravvalutazione di noi stessi diventerebbe letale. Non è senesità, nel terzo millennio, guardare in cagnesco i "diversi" che sono tra noi: siano essi studenti o turisti, fatto salvo il dovere di tutti di rispettare una città anch'essa diversa dalle altre, per ciò che la storia ci ha tramandato. Non è senesità, ai giorni nostri, ululare alla luna dei presunti potenti, e finirla lì, senza mettersi in gioco. O pensare, per chi amministra la cosa pubblica, che per superare gli anni dello sfascio sia sufficiente alleggerire i debiti di bilancio. Il buon governo, oggi, a Siena, passa da una rivoluzione etica prima che da tensioni ragionieristiche.
E allora, a mio parere è senesità, oggi, prima di tutto riscoprire il gusto del dibattito delle idee, della contrapposizione dei progetti. Parlare a voce alta anzichè lanciare messaggi sinistri e sotterranei. Combattere la deriva del "chi se ne frega", affermando che il "diverso parere" è la base di una moderna senesità. In cui anziché rinchiudersi nei nostri blog, nei nostri profili Fb, si esce allo scoperto magari per scoprire la raffinata bellezza del cambiare idea. E' senesità andare alla ricerca del confronto con il mondo che ci circonda; misurarsi con gli altri, ricercare una competitività spinta che abbiamo sempre rigettato, perché tanto con la banca si poteva tutto. E' senesità vivere in Contrada, serenamente coscienti che questa sì è un'opportunità unica al mondo, ma senza risvegliarsi dal torpore diffuso solo nei giorni del Palio o per le tenzoni delle commissioni elettorali. E' senesità rifuggire l'anestetizzante tentazione del culto del passato, guardando in faccia il crudo presente e tentando almeno a immaginarlo un futuro più degno. E' senesità anche provare un brivido per centri tramonti, impensabili da altri parti; o commuoversi per il battesimo contradaiolo delle tue nipotine. E per tutto questo sfuggire alla paura e alla voglia di fuga. 
A me piace pensare che senesità sia, ancora oggi, avere la passione dell'immaginare una città migliore. Senza arrendersi, avendo la voglia di misurarsi ancora con il bisogno di un bene comune diffuso, non più riservato alla casta dominante dei potenti e dei loro fedelissimi. Forse questo è oggi l'antidoto al riflusso della senesità. Senza generalizzare, perché poi, ognuno di noi ha il diritto - e forse il dovere - di pensarla come meglio crede".

Daniele Magrini

3 commenti:

  1. Sottoscrivo in pieno. Abbiamo un grande passato dietro le spalle e un non meno grande disastro. E' il momento di smettere di guardarsi indietro per autocelebrarsi nostalgicamente o per lamentarsi dopo che sono fuggiti tutti i buoi, tranne, forse, quelli del carroccio. E' il momento di ricostruire partendo dalle nostre splendide macerie; è il momento di fare cose normali per tornare ad essere straordinari, e cose straordinarie per tornare a essere normali. La nostra grande bellezza è stata distrutta da una grande disonestà e cialtroneria. Ci vuole uno scatto di orgoglio vero che ci faccia rialzare la testa e dire le cose come stanno con la schiena dritta. Magari impegnandosi in prima persona a fare per la Città, in tutti i modi possibili, a seconda delle nostre capacità, proprio come si lavora per la Contrada. Credo che nel Terzo Millennio, in seguito a come sono andate le cose, il Buongoverno debba partire dal basso, da una concordia attiva e dialettica, dall'operare senza secondi fini per il bene comune. I politicanti di qualsiasi colore nella maggior parte dei casi non lo sanno (più?) fare. Bisogna costringerli a operare bene con un'attenzione costante e una rinnovata e non asfittica circolazione di idee; con il sostegno e con la critica costruttiva, a seconda dei casi. Lasciamo riposare in pace gli eroi di Montaperti, smettiamo di vaneggiare chiusure delle porte e ricostituzione dell'antica Repubblica. Ormai non ci crede più nemmeno chi lo dice, e se ci crede… ahinoi! Siena è stata eccezionale in positivo, poi in negativo. Ora è il caso che ricominci da un'operosa normalità per far venire fuori i valori eterni su cui si è fondata la sua civiltà e che la rendono straordinaria. Straordinaria davvero. Simonetta Losi

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  2. Caro Daniele pur condividendo molte delle tue considerazioni e pur rispettando il tuo diritto ad esprimerle, devo dirti che c’è anche molto che non condivido. Intanto quelle considerazioni avrei preferito leggerle prima che la devastazione di Siena iniziasse o almeno quando questa era in corso. Renderle pubbliche ora, a sfascio irrimediabilmente concluso senza un solo accenno di autocritica e senza fare un solo nome dei responsabili diretti, mi sembra quanto meno improvvido.

    Perché, vedi, l’unica senesità, l’unico progetto di senesità accettabile è oggi quello – che tu sembri evitare – della restituzione o riconquista della Città da parte dei Cittadini, col corollario del prepensionamento dei “professionisti/mercenari” della politica e magari anche della incarcerazione di quelli di loro che fossero trovati responsabili di reati. Tutto il resto è fuffa.

    Non c’è la luce della cultura in chi a Siena non riesce a rendersi conto che nella storia e fino a pochi decenni fa la Città è stata grande – anzi grandissima, nella sua piccolezza, come nessun’altra – per il semplice fatto che era sempre stata amministrata e amata dai suoi Cittadini.

    Ma come fai a parlare di chiusura provinciale invitandoci tutti alla “ricerca del confronto con il mondo che ci circonda; misurarsi con gli altri, ricercare una competitività spinta che abbiamo sempre rigettato …”? Il peso su Siena di organismi come la Banca, l’Università e l’Ospedale - senza contare Whirlpool e Novartis - è spaventosamente enorme come in nessun’altra città, e enorme è la loro apertura verso l’esterno, anzi grazie a loro la Città è stata ed è oscenamente aperta. Quanti sono i Senesi che contano in quelle strutture? E c’è un Senese che istituzionalmente conti qualcosa a livello locale, provinciale, regionale e nazionale?

    Siena città chiusa?

    Quale Senese (http://www.ilcittadinoonline.it/news/144490/I_Senesi_che_fine_hanno_fatto_.html) ha fatto a Siena la carriera di Luigi Berlinguer, Piero Barucci, Franco Bassanini, Enrico Boselli, Rosi Bindi, Carlo Zini, Vincenzo De Bustis, Piero Tosi, Pierluigi Piccini, Franco Ceccuzzi (un Senese potrà masi essere sindaco di Montepulciano?), Giuliano Amato, Giuseppe Mussari, Gabriello Mancini, e ora Profumo e Viola e ci voglio mettere anche Bruno Valentini e chissà quanti me ne dimentico, tutti miracolati da questa Città? Siena non è già stata sodomizzata abbastanza dal “mondo che ci circonda”? L’Antonveneta non è bastata? C’è qualcosa ancora più sodomizzante da provare? Dobbiamo “aprirla” ancora di più questa Città?

    (segue...) Mauro Aurigi

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  3. (...segue)

    Vedi, c’è una regola che non ha eccezioni sia sul piano storico che su quello attuale: quanto più alto è il livello della democrazia, ossia quanto più il potere è nella mani del popolo (popolo, non plebe), tanto migliore è la qualità della vita dell’intera comunità. E ciò per una semplice ragione: il popolo ama la propria città, i principi no, i principi semplicemente la dominano e la stuprano. I popoli hanno una patria, i principi no, i principi sono sempre in cerca di una patria altrui da sfruttare. E noi da una trentina di anni siamo dominati e sfruttati da principi alieni.

    Di tutto ciò non c’è niente nella tua esternazione. Anzi, ti sei anche inoltrato nel terreno minato di un mito cittadino, quello di Montaperti. Non sei il primo. Altri intellettuali “organici” l’hanno fatto prima di te parlando addirittura di sconfitta, nel senso che dopo quella vittoria tutto tornò come prima e peggio di prima: a che pro quindi gloriarsene? Ma si tratta di crassa ignoranza o interessata ipocrisia, ambedue intollerabil in uno studioso. Com’è possibile che non vi poniate la domanda: cosa sarebbe successo in caso di sconfitta? Ce lo dice l’episodio di Semifonte nella Valdelsa, altro piccolo e battagliero comune mercantile e perciò, come Siena, inviso a Firenze. I Fiorentini nel Duecento lo sconfissero e non ne lasciarono pietra su pietra. E’ quello che i Senesi volevano fare di Firenze dopo Montaperti – ma non ci riuscirono – ed è quello che Firenze avrebbe fatto anche a Siena se a Montaperti avessero vinto loro. Di Semifonte non è rimasto nulla e nessuno che oggi ne parli, come non ci sarebbe niente e nessuno, neanche noi due, a parlare oggi di Siena se a Montaperti essa fosse stata sconfitta. Perché come Semifonte Siena non avrebbe avuto alcun futuro (ossia noi non avremo una storia alle spalle): tutto quello che oggi sappiamo di Siena, cancellato. Ti sembra allora eccessivo che quell’evento sia diventato e restato un mito cittadino? Ma c’è di più.

    La battaglia di Montaperti, nonostante la dichiarata avversione dell’intellighentzia cittadina, è durata nella nostra memoria storica più di tutte le battaglie delle tre guerre d’indipendenza messe insieme (ma a Curtatone e Montanara – non a Montaperti – la classe dirigente senese ha dedicato una via importante della Città). E durerà più del ricordo e dell’emozione che la resistenza al nazi-fascismo – pure oggetto della toponomastica cittadina – ancora un poco suscita. Il 4 settembre 1260 quel confronto non avvenne alle porte di Firenze, ma a quelle di Siena, non l’Arno si tinse di rosso, ma l’Arbia: vi si identifica quindi bene un aggressore più forte e un aggredito più debole. Come la Masada o il ghetto di Varsavia per gli Ebrei, o Maratona per i Greci o Stalingrado per i Russi, anche la battaglia di Montaperti deve essere considerata a pieno titolo tra i simboli alti dell’idea universale del diritto alla sopravvivenza e alla libertà.

    Culto tu hai definito giustamente quello di Montaperti. Bene, allora scherziamo coi fanti, ma lasciamo stare i santi.

    Con intatta stima,

    Mauro Aurigi

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