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mercoledì 31 ottobre 2018

C'è tempo

La prima volta te la ricordi per sempre. Il primo concerto, il primo esame a scuola, la prima partita importante, il primo bacio, la prima volta che hai fatto l'amore, la prima volta che hai parlato in pubblico, la prima sigaretta, la prima volta che hai rischiato di morire, la prima cotta, il primo schiaffo dato, il primo cazzotto ricevuto, il primo taglio di capelli assurdo, la prima vera delusione, la prima macchina... e così via.

La memoria è strana, cancella il 90% di quello che ci succede e mantiene vivo un 10% di ricordi, alcuni molto più di altri. Alcuni talmente vivi che sembra impossibile siano ricordi, sembrano solo momenti di una vita parallela che si mantiene accanto alla nostra. Fuori dal tempo. Tra tante prime volte io ne ricordo una più di altre: la prima volta che sono entrata in uno stadio a vedere una partita di calcio. 
Non mi era mai importato del calcio. I maschi crescono con il pallone attaccato ai piedi, iniziano sotto casa, per strada; basta una palla e due passaggi e le giornate scorrono via. Non serve nemmeno conoscersi, esiste un'età in cui basta fare una domanda: "Posso giocare con voi?". E la risposta, nel mistico mondo dei maschi, di solito è si. Nel peggiore dei casi è "Sì, ma stai in porta". Nonostante la mia infanzia trascorsa in assenza di amiche tra uno skateboard, un mazzo di carte e un si gioca a nascondino ma conti te, io a pallone non ci potevo giocare, nemmeno in porta, la risposta in quel caso era sempre "No, sei femmina"; in quel caso di colpo dovevo restare fuori. Troppo scarsa. Così mentre i miei amici giocavano sull'erba umida, io palleggiavo da sola contro il muro, rigorosamente col solo uso di mani e polsi. 
Niente fratelli, niente cugini, mio padre la domenica monopolizzava il soggiorno con la formula uno. E poi era interista. E poi non era nemmeno un padre. Insomma, io e il calcio eravamo mondi separati. Crescendo divenne complicato ignorare il mondo del pallone, quando hai 15 anni e ti piace un ragazzo capisci che dovrai farci i conti. Letteralmente, dovrai organizzarti in funzione delle sue partite, delle partite della sua squadra del cuore, quelle dei mondiali, dei suoi allenamenti, della parrocchia; per fissare un semplice cinema ti servirà un pellegrinaggio a Lourdes. Infatti di ragazzo che giocasse a calcio ne ho avuto solo uno, poi ho deciso di cambiare categoria. 
Fu proprio seguendo lui che finii per entrare in uno stadio. Credo fosse gennaio del 2001. Nei miei ricordi il cielo è ancora terso e la gente allegra, aspettavo arrivassero i pullman dei tifosi con quella strana sensazione a metà tra il sentirsi eccitati ed il sentirsi fuori posto al tempo stesso. Fu il mio primo contatto con voi. Ricordo chiaramente lo sconcerto degli steward al vostro arrivo mentre tentavano di spiegarvi che non si poteva entrare con delle cassette piene di bottiglie di vino nel settore ospiti. Ogni volta che ci ripenso mi metto a ridere. Abitavo in Veneto, ho sempre pensato che tra Toscana e Veneto il vino fosse una delle poche cose capace di avvicinare due realtà diverse. In quel caso non stava funzionando. Ricordo anche le vostre proteste relative al fatto che fosse quasi ora di pranzo e quindi il vino fosse assolutamente necessario. Di quel gruppo di ragazzi ricordo i sorrisi, ricordo il casino all'arrivo dei pullman, i cori, le risate, le sciarpe e gli striscioni e quel bianco e nero che sembrava fosse in technicolor. A rivedervi ora dubito foste davvero belli come nei miei ricordi ma tant'è, questo eravate, una meravigliosa confusione. Per me in quel momento eravate bellissimi, tutti quanti. 
Non potevo sapere che quello era il primo anno di Serie B dopo decine di anni persi nel purgatorio delle categorie inferiori. Chissà quale era il sapore di quelle trasferte, me lo chiedo ancora oggi. Che profumo abbia l'aria in certe mattinate. Sicuramente lì c'era l'odore di una certa felicità irripetibile, che sia capace di far brillare tanti occhi all'unisono. Chissà se in certi momenti si riesce a sentire sotto la pelle che tutto sta per cambiare. Mi mancano quei sorrisi. È di quel tipo di energia di cui a volte ho nostalgia. 
Quel giorno non sarei dovuta entrare, non era quello il mio scopo, avevo appena compiuto 17 anni. Dovevo “solo” incontrare un ragazzo. E infatti quello successe. Quando poi arrivò il momento di salutarsi e il fischio di inizio sancì lo scoccare della mezzanotte, la carrozza ritornò zucca e lui mi lasciò fuori da sola, un bacio e corse via, solo che nella sua corsa non perse nessuna scarpetta. Diciamo che nelle favole le cose vanno diversamente. La storia che si ripete, niente femmine, tu resti fuori. Ma per la prima volta quell'energia preclusa mi urtò il sistema nervoso. Treviso-Siena, la partita era già iniziata. Altri tempi. Mi lasciarono entrare senza biglietto. Mi batteva il cuore a duemila mentre facevo le scale per poi fermarmi in tribuna, da qualche parte, in piedi. Non fu la partita, non fu il calcio, fu il tifo a farmi emozionare. La prima volta che entrai in uno stadio fu per il Siena. Ci entrai da sola, ero poco più di una ragazzina, ma non mi sentii sola. Mi sentii parte di qualcosa. Il mio battesimo. È una sensazione strana per qualcuno che lotta per tutta la vita con la solitudine trovare un luogo dove lasciarla fuori, chiudere i cancelli e dimenticarsene. Forse sarebbe stato bello legare quel ricordo a qualcuno, un padre, un nonno, un fratello, un uomo che fosse importante nella mia vita. Ma la verità è che mi legai a quelle sensazioni da sola, in quel mondo che mi era sempre sembrato riservato agli uomini ma che in realtà era di chiunque ne avesse bisogno. Quella fu la mia prima volta, la mia prima partita. Avevo 17 anni ed è stato 17 anni fa. 
Forse per questo lo scorso anno ci ho creduto tanto nel fatto che la storia si ripetesse, credevo dovesse chiudersi un cerchio. Forse per questo allo stadio ci vado ancora da sola. Ho sempre odiato la domenica, mi ha sempre messa a disagio. La domenica è il giorno in cui si sta con la famiglia, ci si alza tardi o prestissimo, si pranza coi genitori, si sta con la fidanzata prima e coi figli poi, la domenica sono tutti fastidiosamente allegri. Si ammucchiano sulle spiagge o nei centri commerciali, con le bici in gruppi occupano le strade vestiti in modo pittoresco e con i volti scavati, si riversano nelle vie del centro, nel traffico, nei supermercati, dalle finestre arriva il rumore delle tv e dei piatti mentre la gente apparecchia aspettando qualcuno. Io vivo lontana da casa, odio i luoghi di aggregazione, tollero poco anche la luce del giorno e la domenica l’ho passata spesso in compagnia del post sbornia. Quando mi sento persa, quando la domenica mi pesa più del solito, io cerco la Robur. Meglio se in trasferta. Dura di più.
Sognavo di viverne altre di trasferte quest'anno ma la verità è che l'ultima partita a cui sono stata è stata a Chiavari. Perché non mi sono ancora ripresa dalla porcata subita. E ora alla notizia dell'ennesimo blocco mi chiedo davvero con quale logica si facciano queste scelte. Perché non lasciare comunque giocare, tanto se anche cambiasse qualcosa (non ci credo minimamente) ci sono già delle partite da invalidare, a che pro bloccare di nuovo il campionato di alcune squadre ora che toccava iniziare i recuperi? Chi dovrebbe trarne vantaggio? Oltre al danno la beffa. Il girone A sembra sempre più un girone dell'inferno. E ci siamo tutti rotti un po' i coglioni. Credo sia ora di calare le maschere e smetterla di fare i pagliacci. Se devono decidere qualcosa lo facessero, ma basta rimandare, basta temporeggiare, basta giocare a braccio di ferro, posare la riga e smetterla di misurare chi ce l'ha più lungo, tanto è una gara tra eunuchi. Non se ne può più. Tra pochi giorni sarà Halloween, ma qui nessuno ha voglia di fare dolcetto o scherzetto, basta. Questa sospensione è solo l'ennesima presa per il culo e di partite da recuperare ce ne sono già troppe. In cosa dovremmo sperare a novembre? È il teatro dell'assurdo e nulla più. Si restituiscano ai tifosi le loro domeniche, i loro riti, la loro via di fuga, basta con questo sequestro di ostaggi. È ora di restituire tutto. Compresi i soldi che sono stati sottratti, con gli interessi.
Fossati mi canta nelle orecchie che "c’è tempo, c’è tempo, c’è tempo". Io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare. E conto ora che ci sia un tempo per giocare davvero, correggere il tiro e rimediare agli errori prima di dover vivere di nuovo di rimpianti. Perché si potrebbe dare molto più di così, ma bisogna anche rischiare di cambiare, soprattutto le proprie convinzioni.

Vale

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