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venerdì 2 novembre 2018

La ricompensa

Supermercato di città, una sera come tante. E’ quasi l’ora di cena, la gente affretta il passo lungo le corsie opulente, ricolme fino all’inverosimile di merci variopinte. La voce femminile dell’altoparlante ha già scandito il primo richiamo: il negozio sta chiudendo etc. etc. Una signora afferra una lattina dallo scaffale dei cibi in scatola, ma dopo aver controllato la data di scadenza scuote la testa lasciando che i lunghi capelli biondi le ondeggino sulle spalle.


Mi avvicino alle casse immerso nei mie pensieri, un occhio al cartellino giallo delle offerte e un orecchio teso ad ascoltare la musica in sottofondo. Mi piace quello che esce dalle casse. Credo sia "Kiwi" di Calcutta, ma non ne sono sicuro. Un passo, un altro e un altro ancora e finalmente riconosco la canzone: è proprio quella. Azzeccata! E’ buffo come la musica possa rimanere intrappolata dentro certi luoghi. Chissà, magari la prossima volte che risentirò questo pezzo mi verrà in mente proprio questo preciso supermarket, con i suoi odori, i suoi colori e le sue luci al neon. Oppure mi rammenterà soltanto la sera prima di Ognissanti del 2018. 
Quando ero un po’ più giovane, ero convinto che la felicità delle persone fosse inversamente proporzionale alla roba ammassata nei loro carrelli. La coppia davanti a me ha riempito il loro di budini alla vaniglia, tavolette di cioccolata e caramelle. Immagino siano molto infelici, visto che devono compensare le carenze affettive con una buona dose di zuccheri e cacao. Oppure sarà soltanto un dolcetto e scherzetto, da regalare più tardi a qualche bimbo del condominio. Di sfuggita osservo la mia spesa: petto di tacchino a fette, fagioli in scatola e mele. Fosse vero il mio teorema, dovrei essere una persona molto felice. E magari lo sono anche, soltanto che forse è difficile accorgersene, mentre rimane molto più facile invidiare la vita degli altri. Un schifezza alla volta, i signori davanti a me cominciano il rito del conto. Le casse automatiche sono stranamente chiuse, quindi mi accodo, immerso nei mie pensieri. Con lo sguardo basso, protetto dal cappuccio della felpa come un quindicenne, osservo la geometria perfetta delle fughe tra le mattonelle del pavimento, quando un'ombra entra nel mio campo visivo. A giudicare dalla superficie che ricopre deve provenire da una persona piuttosto alta, lentamente mi volto, lasciando che lo sguardo risalga tutta la figura massiccia alle mie spalle, fino ad incontrare un paio di occhi profondi e indagatori, dello stesso colore del cielo nelle giornate limpide di gennaio. 
Improvvisamente avverto un fortissimo bisogno di essere altrove. Faccio finta di niente, strusciando i piedi, mentre il bip del lettore di codici a barre accompagna il mio imbarazzo. Il ragazzo, bello come un Dio greco, col volto dannatamente familiare, mi rivolge un sorriso tirato, prima di accennare un saluto forzato, sospeso a metà tra la sorpresa e la circostanza. Sono convinto che certi ricordi rimangano incastrati nella memoria come vespe nell’ambra e siano in grado di starsene buoni buoni per anni, aggrappati alle pareti del cervello come naufraghi abbracciati ad un pezzo di legno, fin quando qualcuno o qualcosa non li ritira fuori. Mentre ricambio il saluto senza nemmeno provare a sforzarmi di essere cortese, noto una punta di arroganza nel suo sguardo, che svanisce immediatamente di fronte alla ruvidezza delle mie parole, lasciando il campo ad un qualcosa molto simile allo stupore. Osservando il suo cappotto di marca e le scarpe costose, penso che il suo abbigliamento valga un mese del mio stipendio. Nonostante il disagio, non riesco a non notare che per lui il tempo pare non passare. Boh, forse ha un quadro in soffitta che invecchia al posto suo, o forse è soltanto il giusto mix di fortuna e cromosomi, o magari sono i miei difetti a renderlo migliore. Questo pensiero mi viene incontro con la stessa violenza di un pugno. Tutto ad un tratto vorrei prenderlo per il colletto della costosa camicia e sbatterlo contro lo scaffale degli spumanti sottocosto. Eppure un tempo, tanti anni fa, insieme eravamo felici. Poi che successe non lo so, ma d’improvviso le nostre strade si separarono. Giorno dopo giorno, l’Ottimo delle medie, il 60 delle superiori e la lode della laurea scavarono tra di un noi un solco profondo. Eravamo amici, almeno fino ad un certo punto della nostra vita. Immerso nei miei pensieri, riesco a malapena a capire che mi sta ancora parlando. Blatera di una recente festa dei 40 anni, alla quale hanno partecipato tutti i ragazzi del nostro anno. Mi dice che è stata una ganzata. Lo guardo perplesso: anche io sono del ’78, ma nessuno mi ha detto niente. Le sue parole però adesso hanno raggiunto l’obiettivo e lui ha ottenuto la mia attenzione. Nei suoi occhi noto un sguardo diverso, lo stupore si è trasformato in qualcos’altro. Provo a guardarlo meglio, poi capisco: è disprezzo quello che vedo. Misto ad arrogante e presuntuosa superiorità. Poco distante, un bimbo appollaiato sul seggiolino di un carrello piange disperato. In cuore mio vorrei imitarlo. "Non ti perdonerò mai". Mi pento immediatamente di aver pronunciato queste parole. Ho impiegato anni per dimostrare a me stesso che non ero soltanto un riflesso distorto del suo bagliore ed invece eccomi qua. Lui mi guarda con aria di scherno. Riconosco quell’espressione. Ritorno con la mente ai giorni in cui per entrare allo stadio bastava il libretto delle giustificazioni di scuola, alle prime cotte e alle canzoni di Jovanotti e Max Pezzali, a quel pomeriggio di domenica durante il quale il Siena vinse 2-1 a Perugia, con due goal di Bresciani. Un sorriso mi compare sul volto: chissà se la ricorda ancora la Robur, o se dopo il fallimento è semplicemente tornato a tifare Juve, come hanno fatto in tanti da queste parti. Quelli come lui non perdono mai. In mano stringe una bottiglia di champagne e alcune confezioni di sushi. Se il mio teorema fosse vero, non è affatto felice. 
E immediatamente una vena di tristezza mi abbraccia. Nonostante tutto, provo comunque affetto per quell’amico che, da un momento all’altro, decise di farmi fuori dalla sua vita. Vorrei dirgli che le nostre mamme continuano a sentirsi, nonostante gli anni passati; che suo padre mi saluta sempre e sua sorella mi chiama ancora con lo stesso diminutivo affettuoso di quando eravamo piccoli. Chiedere! Ecco cosa vorrei. Vorrei domandargli se si è mai accorto di aver dato il primo bacio dieci anni esatti prima di me. Bingo! Forse è questo il punto: io sono sempre stato dieci anni indietro rispetto a lui. Poi avrei tanto bisogno di capire quando decise che stavo diventando un peso per lui e come mai, nonostante tutto, rimase mio compagno di banco. A cosa pensava quando pensò bene di passarmi le soluzioni sbagliate del compito di matematica, lasciandomi nell’abisso di un sonoro "gravemente insufficiente" maledettamente inutile in confronto al suo odioso "distinto". Sì, quel giorno volle proprio umiliarmi, ma non so davvero perché. Dov’era l’undici di settembre del 2001? E quando ha vinto il palio, sarà stato in grado di provare qualcosa? Due cose in questa vita non puoi scegliere: il cognome e la contrada. Il resto è tutto a discrezione. Io lo avevo scelto come amico, ma lui un bel giorno decise che non potevo più esserlo. Ma la sua amicizia non si tramutò in indifferenza, giorno dopo giorno sublimò in qualcosa di più inspiegabile: in breve tempo arrivò ad odiarmi. Usciva con ragazze che io non riuscivo nemmeno a salutare e io lo ammiravo di nascosto. In terza media il destino, beffardo e maligno, ci obbligò a collaborare per la realizzazione del plastico di tecnica. Facemmo la copia dello stadio di Genova... visto dopo un terremoto. Nonostante le tribune sgangherate e la geometria improvvisata, nella sua pagella il lavoro fu valutato molto positivamente. Nella mia invece risultò in linea con l’andamento dello studente. Eppure mi sentii orgoglioso di aver contribuito a fargli raggiungere quell’"ottimo". Non mi volle alla sua festa di compleanno, che essendo a giugno, si trasformò nel gran ballo di fine anno. E adesso non mi ha voluto alla festa di classe dei 40 anni: la storia si ripete. 
Mentre raccolgo la mia spesa, lo osservo aspettare il suo turno. Continuando a guardarmi, dal portafoglio di vitello conciato estrae una carta di credito lucida e scura, che porge al cassiere senza guardarlo, aggiungendo "carta", come a voler prendere le distanze da me, che una manciata di secondi prima avevo esclamato "bancomat". "Transazione negata". Il cassiere lo guarda torvo; è stanco e vorrebbe andare a casa. "Mi scusi, ma non passa". Per un attimo, vedo passare una fugace ombra di terrore nei suoi occhi. Mi sembra smarrito. Secondo tentativo: transazione negata, di nuovo. Incredibilmente, provo l’impulso di correre in suo aiuto. "Ci saremo sempre noi due, l’uno per l’altro", c’eravamo detti a Gozzano, durante quella gita sul Lago Maggiore. Cos’era, il '91? Allungo il mio bancomat e chiedo al cassiere di ripassare. Non sto guardando il mio vecchio amico, ma qualcosa mi dice che le sue guance si sono colorate di rosso, mentre si fissa la punta dei piedi. Usciamo dal negozio insieme, come ai vecchi tempi, quando camminavamo dinoccolati come i Ghostbusters nella sigla finale del cartone animato. Ha lasciato l’auto in fondo al parcheggio e naturalmente il suo grosso SUV sembra la custodia della mia piccola utilitaria. A parti invertite, avrebbe fatto lo stesso? Un sorriso amaro scaccia il mio dubbio. Salendo in auto, mi parla a voce bassa: "Uno di questi giorni passo da casa tua a riportarti i soldi". "Ma se non sai nemmeno dove abito", penso con rabbia fra me e me. Io invece l’indirizzo di casa sua lo conosco benissimo, nonostante le centinaia di nomi scritti sui campanelli di questa città. "Lascia stare", gli rispondo di rimando. "Consideralo una ricompensa". "Per cosa?", mi chiede dubbioso. "Per avermi insegnato quanto è brutto disprezzare le persone e farle sentire inutili, sole e goffe. Per tutte le volte che mi hai umiliato e riso di me, senza darmi mai una cazzo di spiegazione". Chiudendo la portiera, avvio il motore e ingrano la marcia, lasciandolo impalato al centro del parcheggio, con il suo cappotto di marca e la mia bottiglia di champagne.

???? - Robur Siena: o questi ora chi sono? Aiutatemi vi prego, svegliatemi da questo incubo! Voglio vincere!

... tira in porta e marca il goal (Lega Italiana figli di p...)


Mirko

2 commenti:

  1. Mirko, le tue parole mi emozionano sempre. Scrivi come vorrei farlo io se ne fossi capace. Ogni tanto arrivo ad odiare i miei amici di un tempo, che si dimostravano tali solo se ero quello da prendere in giro per rallegrare la serata. Per tornare alle cose serie quando si potra' tornare a divertirci allo stadio senza sbadigliare per tutti i 90 minuti?

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    1. quando avranno mangiato lo sgombro anche questi.
      Terzo anno di "progetto" dissero serie B...x adesso 5 pareggi,stadio vuoto e Michi pallemosce ancora in sella.
      Ma tanto se la squadra non ha esterni bassi,non ha un attaccante da 15 gol e il gioco fa cacare la colpa è tutta di Fabbricini...eh si,se c'avevano ripescato semmai veniva bene,si!
      Game Over.

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