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martedì 17 ottobre 2017

L'unità di misura

"Pensate bambini, sforzatevi", si raccomandava la vecchia maestra delle scuole elementari, mentre tentava con passione di insegnarci l’aritmetica e la geometria. "Ragionate secondo l’ordine delle idee", ci ripeteva orgogliosa.
E per esaltare il concetto lo scriveva a grosse lettere sulla lavagna, squarciando l’aria della classe con il sibilo lamentoso del gessetto bianco, che alla stregua di un polveroso Pollicino lasciava sull’ardesia nera una sottile traccia del suo passaggio.

In realtà, a pensarci adesso dall’alto dei miei quasi quarant'anni, la maestra non doveva essere così vecchia, se ha continuato ad insegnare fino a pochi mesi fa. Forse era soltanto il suo bizzarro modo di vestire, unito all’antipatica calligrafia da inizio secolo e a quella triste pelliccia marrone che la rendevano ai nostri occhi molto attempata. E poi tifava per la Fiorentina. 
Io guardavo la lavagna e non capivo. O forse non volevo capire, decisamente poco attratto dai numeri e da tutto ciò che l’uomo nel corso dei secoli ci ha costruito intorno.
A me invece piacevano molto quelle due ‘e’ della parola “idee” messe vicine. Buttate lì quasi per caso o forse per errore. Leggerle mi dava un senso di infinito, perché pronunciando quel vocabolo, il suono sembrava non terminare mai. E su quella doppia vocale, l’immaginazione volava via lontano, lasciando in ostaggio ai numeri soltanto il mio corpo. La fantasia riusciva a scaldarmi il cuore molto più del raziocinio. 
Anche la parola “cuore” mi piaceva molto con quel “uo” musicale da settimana enigmistica posto quasi al centro. Forse fu proprio durante quelle noiose lezioni che,  tra contare e sognare, scegliere la seconda opzione fu molto semplice. Quasi automatico. 
Un giorno di ottobre apprendemmo che tutte le cose, o gli aggregati di cose, misurabili, sono grandezze. La notizia mi lasciò totalmente indifferente. E per poterle misurare e determinarne la quantità, occorreva un’unità: unità di misura, ci disse. Confrontando l’unità con la quantità porterete a termine la vostra stima. Ecco che dividendo in metri la strada che separa la vostra abitazione dalla scuola, riuscirete ad ottenere l’esatta dimensione della distanza da percorrere ogni mattina. Imparatelo bene, ci disse, vi servirà. Io ripetevo a voce alta e continuavo a non capire. Impara l’arte e mettila da parte, bofonchiava mia nonna, sorridendo pacifica seduta vicino al termosifone. 
Crescendo per fortuna mi sono dimenticato di tutto ciò che avesse a che fare con i numeri, tanto che adesso mi rimane molto complicato distinguere la proprietà commutativa da quella associativa. Ma la parola “idee”, con quelle due vocali messe vicine, buttate lì quasi per caso o forse per errore, mi è rimasta in testa, come un tatuaggio sul cervello. 
Dopo aver lottato con la matematica ho dovuto abituarmi a fare i contri con la vita, conoscendo la felicità e le frustrazioni, l’odio e l’amore, i sogni e le speranze. Tutte cose (forse) o aggregati di cose (riforse) importanti (doppio forse col fiocco) ma non misurabili. Mi ami? Sì certo! Quanto? Tanto! Da 1 a 100? 100! Sì certo, 100… Ma 100 cosa? Boh… 
E con questo dubbio sono diventato grande. Per lo meno secondo l’ufficio dell’anagrafe.
Parecchi anni dopo, verso la fine di un altro giorno di ottobre, proprio mentre la settimana lavorativa si apprestava a terminare, mi sono ritrovato a pensare alla vecchia maestre delle elementari. La partita era appena terminata e nella testa rombavano ancora le emozioni fortissime di un goal al novantesimo minuto. La Robur aveva di nuovo vinto e la tensione defluiva lentamente dal mio corpo scivolando dall’altro verso il basso, come le goccia di pioggia durante un temporale. Una volta al catechismo ci dissero che si muore al venerdì per rinascere la domenica. Molti dei miei coetanei la pensano esattamente al contrario e alle 17 del venerdì sono già tutti gonfi di sprizzi, noccioline e tartine con l’uovo. Guardando lo stadio svuotarsi, mi sentivo fresco e pulito: felice come un bimbo appena nato. Ripensavo alla palla che si stacca dal piede di un ragazzo dal cognome strano - con due vocali messe vicine, buttate lì quasi per caso o forse per errore, come idee, cuore o Siena - che entrando dalla panchina aveva voluto invertire il senso di una serata avara di emozioni. Stravolgendo forse anche la direzione di una stagione intera. Ripensavo all’erba umida che ha assorbito il rimbalzo della palla, restituendole una forza maggiore e contraria (forse è così ma non ci giurerei, ve l’ho detto, queste cose non mi piacciono), mandandola a sbattere contro il palo, mentre le manone del portiere, disperatamente sospese a mezz’aria, capitolavano in segno di resa. 
E poi… 
Poi credo di essermi perso. La palla poteva decide di fare qualsiasi cosa. Tornare verso il campo, scartare di lato, attraversare la porta e volare via lontano. Scomparire, sgonfiarsi, esplodere. Ed invece per una volta ha deciso di fare la cosa più naturale del mondo, infilandosi in fondo al grande sacco di rete bianca. E' proprio allora che, correndo in fondo alla curva come ai vecchi tempi, ho capito ciò che la maestra non era stata in grado di spiegarmi. Ho capito che la felicità è un grande mosaico colorato, formato dall’incastro certosino di centinaia di pezzetti di gioia lucente; che presi ad uno ad uno non significano niente, ma visti tutti insieme diventano un capolavoro. Ho capito che la speranza è una cosa meravigliosa e i sogni sono la sua unità di misura. E confrontando la prima con i secondi è possibile addirittura quantificarla. Ho capito che da mille cuori che battono lo stesso ritmo può nascere un solo rombo unico e assordante, capace di spazzare via le paure. Ho capito che c’è un posto dove felicità e sogni si possono incontrare, e proseguire a braccetto lungo la strada che porta ai piedi dell’arcobaleno. Ho capito che è l’ora di tornare a sognare, come Paolo De Luca ci insegnò a fare tanti inverni fa e che anni di ansie, tristezze e delusioni ci hanno fatto dimenticare. Ho capito che la vita è più bella, quando vince il Siena.

Siena - Pro Piacenza: ancora una volta all’ultimo tuffo e ancora una volta il cuore perde un battito e affannato pare affogare, annaspa, sparisce, si inabissa. Per poi riemergere più forte di prima. Ancora una volta diamo un senso alla nostra vita scegliendo il modo più emozionante, come se il tempo dopo il 90° fosse una dimensione parallela appesa al cielo con un filo e sospesa nel vuoto, dentro alla quale la Robur comanda e gli altri s’inchinano.


Tutti insieme uniti avanzeremo.


Mirko

6 commenti:

  1. Mirko, è il più bel racconto in assoluto !!! Andrebbe fatto leggere anzitutto a Emmausso e poi, uno a uno a tutti i giocatori. Siena ha una penna più grande di quella del Salgari. E' la terza volta che lo leggo e la terza volta che piango

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  2. Mirko sei un poeta! un saluto dal Grifo!

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  3. Tutti molto belli Mirko, ma con il tuo talento quanto prendevi in Italiano a scuola ?
    PS : potresti raccogliere tutti i pezzi che hai scritto in un volumetto.

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  4. Ciao Grifo!! Come procede la risalita verso le categorie che più vi competono? La prossima volta che torniamo a Grosseto spero proprio di incontrare voi (ma non perchè siamo rifalliti noi!) e non il triste Gavorrano.
    Grazie a tutti ragazzi. Però il talento secondo me è un'altra cosa. Questo invece è puro divertimento.
    A scuola in italiano me la cavavo sempre, ma non credo di aver mai preso più del 7. Anche perchè se l'argomento non mi piaceva, diventavo antipatico e noioso e il professore mi puniva con quella brutta storia del 'da te mi aspetto di più'.
    Mirko

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  5. Bellissimo ed emozionante come sempre. Una penna speciale...

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