Già, se vinciamo. Quella agognata meta, frutto di quattro anni di corse e rincorse iniziate dopo il triste epilogo della nefasta estate 2014, triste, umida e piovosa come non se ne ricordano di simili, stava finalmente per arrivare. Da una parte i noi di oggi, dall’altra i noi di domani, nel mezzo novanta lunghissimi minuti. Che volete che sia una ora e mezzo in confronto a quattro dozzine di mesi?
La zona balneare della città abruzzese pullulava di ragazzi e famiglie di ritorno dalla spiaggia, bagnini capi ultrà e gruzzoli di cosentini rossoblu. Negli eleganti locali del lungomare le televisioni erano tutte sintonizzate sui Mondiali di Russia. Giocava il Perù, mi pare. Era una strepitosa serata di metà giugno, al termine della quale il sole sparì lentamente dietro agli Appennini, non prima però di aver colorato il cielo di un benaugurante e caldissimo arancione. Atmosfera da finale o da concerto. Poi arrivò la notte. È buffo come la percezione della vita cambi in base al suo effettivo svolgimento. Giornata da ricordare in caso di trionfo, o da scordare se sconfitti. Le luci si accesero, le cose accaddero e l’arbitro fischiò la fine, anche se noi eravamo già lontani, col corpo, con lo spirito e con la mente, inghiottiti dal buio della strada del ritorno, lacerato soltanto da due lame di luce gialla provenienti dai fari dell’auto. Si vede che non era il nostro turno, pensavo fra me e me, mentre la distanza che ci separava da Siena tornava a diminuire e mille demoni invadevano i miei pensieri e le mie tante contraddizioni. E poi tranquillo, il nostro anno sarà il prossimo.
Domenica di metà novembre, qualche mese dopo: il prossimo anno, quello nostro, alla fine è arrivato ma da quella sera di Pescara sembra passato un lustro. Mi guardo allo specchio del bagno e a mala pena mi riconosco. I fili di barba bianca da pochi stanno diventando molti. È normale, mi dicono: è così che deve andare e il contrario sarebbe peggio. Qualche minuto più tardi capisco di aver perso la mia personalissima guerra contro l’avanzare dell’ombra quando dall’ultimo gradone della curva vedo il sole sparire dietro gli alberi di San Prospero. Orfano dei tiepidi raggi di sole che fino ad un attimo prima illuminavano il mondo, mi riparo svelto dentro il giacchetto e ritorno al mio posto.
Domenica di metà novembre, qualche mese dopo: il prossimo anno, quello nostro, alla fine è arrivato ma da quella sera di Pescara sembra passato un lustro. Mi guardo allo specchio del bagno e a mala pena mi riconosco. I fili di barba bianca da pochi stanno diventando molti. È normale, mi dicono: è così che deve andare e il contrario sarebbe peggio. Qualche minuto più tardi capisco di aver perso la mia personalissima guerra contro l’avanzare dell’ombra quando dall’ultimo gradone della curva vedo il sole sparire dietro gli alberi di San Prospero. Orfano dei tiepidi raggi di sole che fino ad un attimo prima illuminavano il mondo, mi riparo svelto dentro il giacchetto e ritorno al mio posto.
La partita inizia mentre la domenica finisce e io non riesco a togliermi dalla testa "Frigobar" di Franco126, canticchiando le parole fra e me con insistenza. I primi quindici minuti scorrono via veloci e totalmente inutili, privi di un qualsiasi episodio valido o degno di essere ricordato. Il pigmento tossico secreto dai seggiolini macchia inesorabilmente i vestiti di bianco e riempie i polmoni. Chissà, magari un giorno questa roba ci ucciderà e non potremo nemmeno rivendicare una qualche sorta di malattia professionale. Anche se presentarci allo stadio ogni due settimane, con la bella stagione o con la pioggia, con la neve, il ghiaccio, la nebbia o il sole cocente, non sarà proprio un lavoro, ma c’assomiglia molto. La partita si avvia verso la conclusione della sua prima metà quando gli avversari ci colpiscono senza preavviso. Come un ladro nel cuore della notte. Dicono che l’ora più buia sia sempre quella prima dell’alba e magari le nostre difese erano abbassate e i cani non hanno abbaiato. O forse qualcuno pensava già al the caldo. Oggi si mette male penso, attorcigliando il Fedelissimo. La paura c’è e minuto dopo minuto non diminuirà di certo, anche perché al peggio non c’è mai fine. E poi non siamo mai capaci di fare goal. Nonostante tutto però, almeno nell’intervallo un velato ottimismo serpeggia ancora fra la gente. Dentro di me tuttavia ho smesso di canticchiare mentre la leggerezza del fine settimana scema verso l’ansia del lunedì. Pescara sembra lontanissima adesso. Solo pochi mesi fa, sommerso dall’amarezza, volevo cancellare per sempre il ricordo di quella serata, chiudendo con questa passione che gratifica molto più lentamente di quanto non corroda, mentre adesso pagherei oro per tornare anche quest’anno a rigiocare una partita del genere. Riavvolgendo il nastro degli ultimi mesi emerge chiara la sensazione di lavoro rimasto a metà. Opera incompiuta che resterà tale almeno per adesso, come certificato dal secondo timbro vercellese arrivato al 90', 0-2 e stavolta sì, tutti a casa.
Non so come abbiamo fatto a ridurci così, ma fatto sta che la paura adesso lascia il posto alla delusione. Perdere non fa mai piacere. Farlo fra le mura ancora meno e uscire sconfitti prendendo due goal nei minuti di recupero di entrambi i tempi mi sa anche di presa di culo. Attenuanti e bugie: ma oggi non ho voglia di salvare nessuno. A fine partita chi batte le mani e chi fischia, con i primi che rimbrottano i secondi e viceversa. Mi chiedo come sia possibile che in questa città non si possa convivere in silenzio col pensiero degli altri, senza dover necessariamente aver sempre qualcosa da ridire. Troppo spesso facciamo di tutto una questione personale. A parte il fatto che non capisco cosa ci sia da applaudire dopo una prestazione del genere, ma se qualcuno si sente di farlo lo faccia pure. Tanto la mia approvazione non è poi così importante. Ma al tempo stesso mi si lasci libero di fischiare ed esternare il mio risentito rammarico. Perché se perdo in casa, dopo aver vinto una volta in otto partite, senza praticamente aver mai fatto un goal su azione "normale", vorrei avere la libertà sbandierare il mio malumore: che piaccia a tutti o no. Siamo tifosi, non parenti. Noi resteremo e loro andranno via. E la differenza forse sta tutta qua.
Siena - Pro Vercelli 0-2: no, il Piemonte non ci piace. Eppure non mi sembravano questi fulmini di guerra. Ma magari mi sbaglio io. Fatto sta che nell’anno della definitiva consacrazione, manchiamo ancora una volta l’appuntamento col successo. A questo punto non so più chi siamo, né dove vorremo andare. Ricordo soltanto chi eravamo, ma in questo preciso momento dei ricordi non so proprio cosa farmene. Mi consolo con Pane miglior portiere del campionato. Ma seriamente? Cristiana ti prego, con il tuo romanticismo pragmatico, intervieni te! Povera Italia, che pena mi fai!
... tira in porta e marca il goal!
Siena - Pro Vercelli 0-2: no, il Piemonte non ci piace. Eppure non mi sembravano questi fulmini di guerra. Ma magari mi sbaglio io. Fatto sta che nell’anno della definitiva consacrazione, manchiamo ancora una volta l’appuntamento col successo. A questo punto non so più chi siamo, né dove vorremo andare. Ricordo soltanto chi eravamo, ma in questo preciso momento dei ricordi non so proprio cosa farmene. Mi consolo con Pane miglior portiere del campionato. Ma seriamente? Cristiana ti prego, con il tuo romanticismo pragmatico, intervieni te! Povera Italia, che pena mi fai!
... tira in porta e marca il goal!
Mirko
Senti, Mirko, I tuoi racconti sono stupendi e andranno per forza di cose raccolti all'Intronati, ma proviamole tutte... Tempo fa ti si scrisse di smettela di scrive' di Pancino perché portava male. Ora ti chiedo, pello stesso motivo, di non concludere più i racconti a quella maniera, tanto in porta non tirano. Vediamo se funziona
RispondiEliminaMa lo sai che anche io sono giunto alla stessa conclusione? Sono settimane oramai che mi ripropongo di non scrivere più quella frase. Poi come il 'cornuto innamorato' tutte le volte gli ridò fiducia. E lei puntualmente mi frega...
RispondiEliminaOra provo a non mettercela, vediamo se funziona.
Mirko