Ricapitolando, in pochi giorni tutti andò a rotoli. E scrivo a rotoli per non essere volgare. Poco prima di giocare a Reggio Emilia (e prenderne 4) al lotto dei tamponi uscì un negativo sulla ruota di casa mia e improvvisamente mi sentii libero. Libero di tornare in ufficio, allo stadio e alla mia vita di prima.
Peccato che a far da spartiacque fra tra la vita di prima e quella di dopo ci fosse S. la vicina di casa incredibilmente stupenda, con la quale sarei stato pronto a salire sul primo aereo per un’isola deserta e starmene tutto il giorno seduto in silenzio accanto a lei a guardare il mare, abbracciandomi le ginocchia ripiegate verso il petto. Sì, lo ammetto, a S. ci penso sempre. Anche adesso. Perché? Perché passare dal “tutto tutto” al “niente niente” è stato devastante come perdere 4 a 0 in casa.
Durante la lunga quarantena, condivisa con il mio piccolo cane dal nome troppo lungo, S. e la Robur, tutto sembrava davvero andare per il verso giusto. Avevo trovato il mio centro del mondo e con esso una sorta di equilibrio magico. Il cane aveva smesso di abbaiare a qualsiasi forma di vita animale passasse nel quartiere, la Robur veleggiava tranquilla e la classifica strizzava l’occhio ad un futuro interessante. Poi c’era S., la più probabile ragazza della mia vita, pronta a scendere in casa mia per ogni motivo, con la quale ho condiviso mesi incredibili, emozioni intense e copiose bevute. S., Robur e Vino. Il triangolo perfetto. Tuttavia dentro di me lo sapevo che quel paradiso non poteva durare per sempre e che presto o tardi tutto sarebbe tornato alla noiosa normalità del passato. Soltanto che io non ci volevo credere. E invece.
Invece da quella sera in cui perdemmo a Reggio Emilia, in quella che molto probabilmente fu la posa della prima pietra del nostro anonimo e grigio girone di ritorno, S. cominciò a farsi lontana. Le sue comparsate in casa divennero sporadiche e i nostri sorrisi si fecero forzati. Quelli che il giorno prima erano culo e camicia si ritrovarono a salutarsi sul pianerottolo con un semplice ciao, mentre fuori la vita continuava a scorrere lenta fregandosene del mio cuore che girava all’impazzata, come prigioniero di un infinito tagadà ogni qualvolta un ricordo si posava su di lei. Qualcosa era cambiato. Ma cosa?
Tutto era cominciato una sera di gennaio, nella quale avevo "ufficialmente" chiesto S. di uscire. Sì lo so che non fu un vero e proprio invito classico, con tanto di appuntamento e cena fuori, ma in ogni caso proporle di accompagnarmi a vedere Siena-Imolese mi sembrò una bella idea per rompere la monotonia di settimane trascorse in casa e farle finalmente vedere i luoghi e le persone che avevano popolato le nostre interminabili conversazioni. E invece... Invece la stupenda ragazza (non sarà certo la distanza a farmi cambiare idea), con i suoi modi carini ed educati, declinò la mia proposta. Anzi, volendo poteva anche raccontarmi una cazzata, tipo vado dai miei, ma invece fu estremamente onesta e mi confessò che la successiva domenica, mentre noi cuori bianconeri eravamo a vedere Alberto Paloschi segnare l’ennesimo goal del suo campionato, lei avrebbe rivisto il suo fidanzato elastico, una specie di figura degli abissi che andava e veniva, tornando a far capolino sempre nei momenti meno opportuni. "Vado per riprendermi le cose che ho lasciato a casa sua", mi disse sorridendo, leggermente imbarazzata. Anche se questa sfumatura penso sia soltanto un falso ricordo aggiunto dal tempo, messo lì soltanto per indorarmi la pillola, come quando mia mamma da piccino mi dava la Novalgina e un cucchiaino di zucchero. Sapere che dopo quella domenica avrei avuto S. tutta per me fu comunque una momentanea sensazione meravigliosa. Senza quell’intralcio del suo ragazzo ex ragazzo sarei stato finalmente libero di dichiararmi. Non mi interessava portarmela a letto, non era sesso quello che cercavo nella sua presenza. Era qualcosa di più profondo e intenso. Non so se fosse amore ma ci somigliava bene.
Al venerdì sera ci salutammo come niente fosse e i successivi due giorni furono lunghi come una tappa piranica del Tour de France seguita integralmente su Rai Tre, con il vecchio Adriano De Zan che si emozionava anche per uno scatto di Franco Vona a 110 km dall’arrivo. Io me ne stetti due giorni in silenzio e, a parte quelle due ore trascorse allo stadio, passai il tempo a controllare il telefono. Non mi aspettavo certo un suo messaggio, ma quel silenzio piano piano divenne un tarlo che iniziò a scavare nel legno delle mie sicurezze. Passò il sabato e finì anche la domenica. Dopo cena decisi di assecondare il piccolo cane dal nome troppo lungo e ci concedemmo una lunga passeggiata nel freddo arancione di una notte invernale, nella quale nemmeno la nebbia pareva avere la meglio sulla tramontana. Accaldato dalla camminata, spalancai il portone, proprio mentre S. arrivava dalla piccola porta che da sui garage. Se non fosse stata per il guaito del piccolo cane non l’avrei nemmeno notata. Procedeva al buio, come chi tenta di nascondersi o prova a scappare da qualcosa. O qualcuno. Un brivido mi pizzicò la nuca. Cercai di mascherare la mia emozione ma nell’andarle incontro non credo riuscii a fingere il distacco che dentro di me volevo mostrare. Fosse stato per me l’avrei abbracciata stretta stretta, se non avessi incrociato prima, per un solo istante, il suo sguardo. Quegli occhi, meravigliosamente vivi e profondi, non erano più i miei. Il suo era lo sguardo di una che ha deciso. Il mio invece molto probabilmente divenne quello di uno che ha perso tutto. Senza guardarmi mi salutò con un laconico "Ehi" e passò oltre, ignorando persino il piccolo cane. Le chiesi come fosse andato il fine settimana e lei rispose distrattamente, facendo finta di controllare la cassetta delle lettere, come se la domenica fosse un giorno normale per ricevere posta. La invitai a salire da me per bere una calice di Ribolla Giallo fresca e profumata, e per la prima volta mi rispose: "Questa sera è meglio di no". Anche la scusa del vino forse apparteneva ad un mondo recente ma già antico. Nella mia voce credo scorse persino un patetico timbro di supplica quando le chiesi se l’indomani avesse avuto voglia di cenare da me, stando bene attendo a non dire "con me". Per farlo addirittura la chiamai con il nome di battesimo, pronunciato tutto per esteso (come la mamma quando sgrida il figlio). Fu la prima e unica volta. Non era più tempo di Q. e di S. Adesso eravamo soltanto due condomini con un baule pieno di serate spensierate, risate e altre cose, soltanto che la mia parte era zeppa di sogni, la sua invece conteneva solo mutande e calzini recuperate a casa del suo ex… Recuperate?
Un altro dubbio si insinuò nella mia testa, risalendo veloce verso l’altro come bollicine in un bicchiere di acqua frizzante. S. in mano non aveva nessuna valigia, borsa o sacchetto della Coop. Forse aveva lasciato tutto in garage, oppure.... Il tarlo nella mia testa divenne un martello pneumatico, di quelli che utilizzavano gli operai del Gas-Int le mattina d’estate, quando arrivò il metano in paese e io volevo soltanto dormire. Frugandosi nelle tasche del cappotto cercò nervosamente il mazzo di chiavi, che tintinnavano ad ogni suo passo, assecondavano l’ondeggiare delle lunghe falcate lungo il corridoio prima e poi su verso il primo piano. Non l’avevo mai vista così elegante: indossava una gonna meravigliosamente corta e un paio di stivali al ginocchio. Nonostante mi stesse condannando a morte, non potevo fare a meno di innamorarmi di lei ancora un po’ di più. La mia S. con la quale sognavo di baciarmi mentre il Siena vinceva il campionato e volava in B, nel più scontato finale da film americano, si stava velocemente allontanando da me. Gradino dopo gradino, ancora vicini ma oramai distanti e irraggiungibili, il suono dei suoi tacchi sembrava scavare una voragine profondissima, che non sarei riuscito a scalare nemmeno fossi stato Reinhold Messner. Tutto si era svolto in una manciata di secondi, non pensavo che la fine fosse così veloce. Mi aspettavo qualcosa di più agonico, e invece tutto era terminato in un lampo. Rincasando osservai il salotto di casa mia, il divano, le seggiole del soggiorno, la televisione. Tutto assumeva una sembianza differente. L’illusione stava svanendo e con lei stava svanendo il mio ultimo barlume di speranza di essere felice. Il trillo del telefono mi scosse, riportandomi alla normalità. Era un messaggio di S. "Scusami per prima". Il mio cuore si riaccese, come una vecchia Fiat Uno fuori carburazione, che balbetta un po’ prima di iniziare a carburare. "Ti devo delle spiegazioni, ma non questa sera". Il mio cuore incespicò. "Ad aprile me ne vado". Il mio cuore esalò l’ultimo palpito, prima di precipitare dentro allo stomaco, speranzoso di affogare velocemente nelle amare onde del mio disperato destino. "Notte, S.". Era successo qualcosa durante quel maledetto fine settimana. Ma io non ero molto sicuro di volerlo sapere. Automaticamente risposi "Ok", accompagnandolo dalla faccina col cuore vicino alla bocca e poi spensi il telefono, per non stare a controllarlo ogni trenta secondi. Poi, togliendomi le scarpe chiesi ad Alexia (e anche questo finto rito mi sembrò mestamente fuori luogo): "Alexia, riproduci "Maledetto Tempo" di Franco 126". Era una canzone che avevo ascoltato mesi prima assieme alla mia ex ragazza dei sogni e farlo adesso, da solo, mi fece sentire inutilmente triste e vuoto, come un pallone bucato abbandonando ai giardinetti.
Fiorenzuola - Siena 1 a 1: ennesimo pareggio di un girone di ritorno inverosimile, sospeso a metà fra l’assurdo e il malinconico. Mano nella mano con i nostri guai stiamo camminando verso il tramonto dell’ennesima parvenza di normalità, distrutta nel solito modo di sempre. Siamo talmente abituati a queste situazione che se non ci fossero, ne sentiremmo persino la mancanza. In ogni caso, io fra dieci anni sarò sempre là, su quegli scomodi gradoni dello stadio più brutto d’Europa, che piova o nevichi, con sole o di notte, in terza categoria in Europa League. Per me, comunque andrà, sarà sempre Forza Siena!
…Siena calcio il nome, lotta con onore!
Mirko
Gran bel post di Mirko che come sempre ci allieta con la sua penna coinvolgente e mai banale. Dario M Castagno
RispondiEliminaCome sempre il bicchiere è mezzo vuoto e mezzo pieno ma soprattutto.... morto un Papa se ne fa un altro!
RispondiEliminaIl Granacci