Tra lo stadio e la grande croce di metallo lucente incastrata al centro del cielo dovrebbe esserci in mezzo una montagna. Una grossa montagna visibile da decine e decine di chilometri. Dovrebbe essere visibile, di giorno o magari con un clima più clemente. Adesso invece tutto pare aver lo stesso colore del buio e niente sembra essere come sembra. Aria e terra paiono fatte della stessa sostanza, mentre l’acqua lava via i peccati degli esseri umani in attesa del ritorno del caldo fuoco che tutto curerà. Nero, pioggia e poco più. Lassù, alla nostra destra, resta solo la croce, sospesa nel niente, forse avvitata al soffitto di nuvole, come una lampadario della chiesa o un lumino del cimitero.
Perfettamente in tema dato il periodo. Osservandola fissa, sarà per la il riflesso obliquo della pioggia, sarà per la mia vista in agonia, sembra di vederla addirittura ondeggiare, come se il vento la spingesse avanti indietro, tipo una gigantesca altalena luminosa di quelle utilizzate per arredare i parchi giochi dei bimbi, affollati d’estate e deserti d’inverno. L’altalena per me è sempre stato un gioco molto triste: tutte le volte che vi sono salito sopra, sono sempre bastati pochi secondi per annoiarmi. E poi i giochi dove uno si diverte e l’altro guarda non mi sono mai piaciuti. Senza competizione, perfino il calcio sarebbe monotono.
Distolgo lo sguardo da quel grosso crocifisso incandescente appeso al collo di un invisibile gigante e torno a concentrarmi sulla partita. Il gioco va a sprazzi come il temporale. O stai a vedere che al novantesimo ci frega e smette... Parole profetiche, lo scopriremo più avanti. Il verde dell’erba, eccitato dalla fredda luce bianca dei riflettori, cozza con la notte che scende mentre la vita dentro le case del circondario piano piano sgattaiola verso la camera da letto. All’esterno dello stadio i lampioni delle vie colorano il mondo col solito arancione, inutile e rassicurante allo tempo stesso. Piovizzica. Piove. Piove forte che il signore la manda. Diluvia. Tre ore prima e 160 chilometri più a ovest, il nostro pullman era partito da uno dei luoghi cittadini dove la nostra bianconera passione ebbe inizio, per puntare deciso verso Gubbio, colmo di vite che lentamente lottano per tornare alla normalità, speranza e birre in lattina. Dire di voler tornare in trasferta è un conto, farlo è tutt’altra cosa. Solo salendo sul grande pullman blu mi sono reso conto di quanto mancassero alle mie domeniche quei tre scalini, quell’odore e quella la strana sensazione scaturita dal contatto delle dita con il tessuto dei seggiolini. Sedendomi ho realizzato che sono passati anni dall’ultima volta in cui sono salito sopra uno di questi cosi. Provo a ricordare, anche se il passaggio del Covid ha reso gli anni tutti uguali. Forse abbiamo perso la cognizione del tempo e non ce ne siamo resi conto. Rivoglio indietro due anni della mia vita. Adesso! Ma poi di preciso in che anno siamo? Per rispondermi e restare aggrappato ad un brandello di 2021 che lentamente arranca verso la fine devo aver controllato il cellulare: 1 novembre 2021, si va a Gubbio a vedere il Roburrone.
Foto ricordo, coro e partenza. In questo rigoroso ordine. La strada vista dal parabrezza di un pullman sembrava un videogioco. Ma non quelli di adesso. Quelli della sala giochi, che funzionavano soltanto dopo aver inserito la moneta e avevano il volante ed il cambio al posto del manicchiolo e dei pulsanti. Le lucine della consolle dell’autista si riflettevano sul vetro, mentre all’esterno il traffico del giorno di festa stentava a trovare un senso logico, incattivito da questa pioggia continua che non ne voleva sapere di smettere. Arrivati allo stadio è stato come tornare ragazzi. Incredulo, mi sono sorpreso a rifare tutte le cose che facevo tanti anni fa. Fermo contro la pioggia, avevo l’impressione di essere una palma finita per sbaglio in mezzo ad un ciclone tropicale.
Squadre in campo, testa e croce e si comincia. Si pinta subito dalla parte del nostro settore. Che palle: nel secondo tempo non vedrò niente e ripenso ancora una volta all’ottico che prima o poi dovrò andare a trovare. Partita umida, serata peggio. "Ma chi me lo ha fatto fare di venire?" mi urlo addosso in occasione di un pasticcio del nostro attaccante biondo. E inevitabilmente la mente vola al caldo di casa, al divano e alla compagnia del sereno russare della canina. E invece… Ma davvero che faccio qui? Sì, lo ammetto: ci siamo messi addosso una strana croce. Tiro da lontano, talmente da lontano che la palla arriva in porta dopo una parabola lunghissima in stile cometa. Manco avessimo azionato dei tergicristalli invisibili, il muro di acqua si squarcia di quel tanto che serve per vedere la palla sbattere sulla faccia inferiore della traversa, rimbalzare in campo e spegnersi dentro la porta. Sììì! 1 a 0. Anzi, 0 a 1. Vuoi vedere che questa sera si frigge davvero con l’acqua? La croce da lassù mi guarda serie e sembra dirmi: ah, non chiederlo certo a me!
Il primo tempo finisce e mi concedo una birra. Clima disteso e gente tranquilla. Il vantaggio è il migliore dei calmanti. Ricomincia la partita ma vorrei tanto l’arbitro fischiasse la fine. Partita in pieno controllo. Dai che la facciamo scivolare via senza soffrire. Forza ragazzi! I minuti passano con estenuante lentezza. Mischia nell’aria nostra. Crocevia. Fallo, ruzzolone, fischio dell’arbitro. A occhio e croce mi pare punizione. Mah? Ma che caz... Rigore per loro, altro che punizione. Il destino (o l’incapacità umana) anche oggi pare metterci la coda. Mi arrabbio. Davvero. Tanto. Troppo. Non ho più l’età. La famiglia accanto a me (babbo, mamma e cittino) credo mi ricorderà con astio. È inutile tentare di convincere i bimbi che le parolacce non si dicono, se poi tanto trovano brutti ceffi come il sottoscritto che in venti minuti distruggono tutto il lavoro certosino dei genitori. Davvero: scusatemi. Inizio una partita nella partita tutta mia con il guardalinee. Lo so che non c’entra niente ma l’arbitro mi resta troppo lontano. Vorrei ricordare al bimbetto che le mie non sono vere e proprie parolacce ma sembrano più segni di punteggiatura da utilizzare fra una bestemmia e l’altra. Ma forse è meglio se lascio perdere. Perché tanto, temo, sarebbe fiato sprecato. Finisco la voce e termino la pazienza. Basta, questa è l’ultima volta che vengo in trasferta. Giuro ci faccio la croce!
Si riparte: 1 a 1. La rabbia mi ribolle dentro come un branco di tonni sotto la superficie del mare. Improvvisamente ho caldo. Mi sorprendo ad autoconvincermi che forse sono io che porto male. Mi divento antipatico da solo. "Ma perché non si sta a casa a queste serate?", esclamo a voce alta. Corner, testa, goal. Goal? Come goal? Ma nostro? Sì nostro! Chi? A boh. Era dal goal di Flo contro la Fiorentina che non segnavamo di testa su calcio d’angolo. Lo so, esagero ma non m’importa. Minuto 90, finisce la mia partita col guardalinee e di riflesso con l’arbitro. Sul 2 a 1 non ho più il tempo né la forza per i mediocri. Guardo in alto alla mia destra. Istintivamente mi porto una mano alla fronte, in un profano segno della croce. "Ecco perché non vale mai la pena di stare a casa", mi gridano. E io guardo la mia personale croce e anche lei, per una sera, pare sorridermi, mentre incredibilmente il cielo la smette di rovesciarci addosso la sua umida rabbia.
Gubbio - Siena 1 a 2: tre punti pesanti come un macigno per iniziare a costruire un muro tra noi e chi ci segue. Tre punti per soffiare sul fuoco dell’entusiasmo e puntare dritti verso la partita di domenica. Altro crocevia del nostro campionato, dove passato, presente e futuro siederanno tutti allo stesso tavolo. Vaira non venire. O se se vieni, fatti il segno della croce!
…su quei gradoni, lì ci troverai!
Mirko
Sembra che un‘ auto presa a lisinghe fu ritrovata in una squallida piazzola della superstrada senza benzina…
RispondiEliminaIn questa macchina si sono consumati momenti indimenticabili di calzio mercato…
EliminaMa ti fai sempre riconosce, gnamo nella mistica umbria a smadonnare davanti le famiglie in preda all arcole,ma poi hai fatto un mistione di fede sacra e profana da vergognassi a leggerti, ti va' bene che lo Sbarra e' spartito.
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