Nell'immortale opera "La congiura dei somari. Perchè la scienza non può essere democratica", Lui, il professor Roberto Burioni, ribadisce a chiare lettere, fin dal sottotitolo, che la scienza non può e non deve essere democratica. E noi allora, di rimando, ci domandiamo: ma se si vive in democrazia, la scienza può starne fuori?
Madonnina mia, che domandone oggi! Ma come ci siamo svegliati? Ma che s'è mangiato ieri sera per essere così "alti" di prima mattina? Oggiù, badiamo che si tira fuori dal cilindro.
Premessa: a noi Burioni fa schifo (e per questo non lo nomineremo più). Ma ciò non deve inficiare un ragionamento sul tema da lui lanciato, che ha più di un fondamento da discutere.
Prima di tutto, analizzando la storia dell'uomo, dobbiamo rilevare un fatto. Che la scienza si è evoluta soprattutto (ma non solo, sia chiaro) in ambito democratico. Assicurare difatti la completa libertà alla ricerca fa sì che si sviluppi più ampiamente una creatività scientifica di livello. Non si ricorda una dittatura, ad esempio, nella quale siano fiorite scoperte o scuole o comunità scientifiche da ricordare; anzi, di solito le dittature hanno rappresentato la morte della creatività, in particolare modo quando hanno preteso di assumere le redini di indirizzo della stessa.
Nel mondo contemporaneo della comunicazione rapida e della condivisione estrema, sarebbe assurdo (ed impossibile) tenere la scienza all'interno delle torri d'avorio nelle quali, per propria conformazione, essa tende a rifugiarsi. E nelle quali fino a pochi decenni fa una comunità sceglieva di comunicare solo a se stessa, senza una minima divulgazione all'esterno. Oggi, al contrario, una buona scienza crea sviluppo, business, partecipazione attraverso molteplici attori della filiera, che si tratti di aziende, enti pubblici o soggetti privati. Così facendo, la scienza può assicurare una costante innovazione nella società, nell'economia e nella cultura. Non è un caso difatti se la cosiddetta "società della conoscenza", quale è quella che stiamo vivendo, nasca nelle società libere dell'Occidente, piaccia o non piaccia.
Ciò ha portato ad una relazione ambivalente fra produzione scientifica e chi ne usufruisce. Soprattutto negli ultimi anni si nota una rilevante domanda di compartecipazione dei cittadini allo sviluppo scientifico, tanto che qualcuno inizia a parlare di diritti di cittadinanza scientifica. Terminata la fase del rapporto paternalistico (si pensi a quello medico-paziente), oggi si parla di rapporto negoziale, nel quale il cittadino compartecipa con lo scienziato ad esempio alla definizione della diagnosi e della cura: anche per legge, il medico ad esempio richiede il "consenso informato" del paziente in ambito di cura.
Ma probabilmente questa tendenza della compartecipazione da parte dei laici, ovvero di cittadini non esperti, alle scelte a carattere scientifico è più manifesta nell'ambito ambientale. Esiste difatti la Convenzione di Aarhus, "sull'accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini e l'accesso alla giustizia in materia ambientale", firmata anche dall'Italia nel 1998 ed entrata in vigore nel 2001, ovvero 20 anni fa, che riconosce ai cittadini ignoranti il preciso diritto all'accesso alla migliore conoscenza scientifica disponibile sullo stato dell'ambiente. Un diritto, appunto, pienamente democratico.
E poi, vuole o non vuole la comunità scientifica mettere da parte il rischio di rigurgiti demagogici? Bene, si apra alla richiesta di partecipazione della società, divulghi le proprie scoperte in modo comunitario, non sia sottoposta ad interessi di parte, verifichi le opzioni per un concorso esterno, si sottoponga ad una analisi critica su metodi e risultati ottenuti, abbatta ogni paradigma di segretezza.
Dicevamo della analisi critica su metodi e risultati ottenuti, passaggio fondamentale nella tenuta del sistema democratico e nella gestione del rischio di eccessi della scienza. A ben vedere, gli scienziati non possono avere il monopolio nel potere decisionale di implementare un risultato o una scoperta raggiunto, fosse solo perchè non possono avere le competenze per farlo. Ne occorrono anche altre, di tipo economico, giuridico, comunicativo, ecc. Lo scienziato deve essere interpellato ed ascoltato, ma, ai fini democratici, la sua parola non deve essere per forza l'ultima.
Facciamo un esempio pratico ed attualissimo: i vaccini. Per valutarne l'efficacia e gli effetti collaterali serve la competenza della scienza. Ma il decidere se distribuirli in modo obbligatorio o con il metodo della semplice raccomandazione spetta alla politica ed alla società.
Quindi, terminando con un richiamo a quanto declamato all'inizio, un fattore risalta sopra gli altri: Burioni è un bel troiaio. Ops, lo abbiamo rinominato. Sorry
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