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mercoledì 15 aprile 2020

La supposta non va sotto la lingua

In questo periodo di allarmismi e di sensazionalismi è facile trovare nei vari social richiami a medicine miracolose, a rimedi super tecnologici, a condanne definitive. Noi, come di consueto, proviamo a farci delle domande ed a darci delle risposte.
"Sieee, ora te sei anche scienziato, mira".
"Beh, forse lo sono stato, che ne sai te?".
Leggo, analizzo e rifletto; cerco insomma di farmi un’idea mia e di non prendere per buono quello che mi dice Tizio o Caio, solo perché l’ha detto lui.
In particolar modo, rispetto al coronavirus, si sente dire da più parti che entro l’inverno arriverà il vaccino.
Sbagliato, anzi sbagliatissimo. Chi lo dice? Con quali basi si arriva a prevederlo?
Forse perché si definisce il coronavirus un’influenza, ma è errata anche questa definizione, seppur il covid-19 abbia delle caratteristiche comuni con i virus influenzali. E circa i coronavirus precedenti - ad esempio la Sars - vi ricordo che il vaccino non fu trovato in tempo, la malattia si esaurì da sola, fortunatamente.
Occorre effettivamente fare un po’ di chiarezza sui vaccini antiinfluenzali e di altro tipo.
Nel caso delle influenze, ogni anno esse nascono in Estremo Oriente, in particolare dove sono presenti organismi internazionali in cui la ricerca e la scienza sono in grado di dare qualche tipo di risposte (ad esempio ad Hong Kong, Australia o Nuova Zelanda). Si provvede cioè ad isolare e “tipizzare” i virus - detto in maniera semplicistica, ne viene scoperta la composizione delle parti che li determinano - quindi i virus vengono spediti nella “banca virus” situata a Londra, dalla quale sono messi a disposizione delle aziende che poi procederanno a cercare e produrre nel più breve tempo possibile il vaccino di riferimento.
Per questo tipo di vaccini, visto la natura del virus e la struttura del vaccino stesso, non è richiesta una complessa procedura di rilascio ogni anno. Logico, ci devono essere delle garanzie produttive ben determinate ma, per le caratteristiche intrinseche del virus stesso, non occorre tutte le volte produrre studi clinici importanti come succede per un vero e proprio medicinale che debutta nel mondo sanitario.
L’errore che si fa oggi è quello di considerare il coronavirus-19 come una normale influenza, solo un po’ più 'gnorante. No, non è così, non è un’influenza, è un nuovo tipo di malattia, con tutte quelle problematiche che ha una nuova malattia, soprattutto sotto l’aspetto normativo.
Che vuol dire?
Semplice: ogni nuovo farmaco deve sottostare ad un iter ben preciso prima di entrare sul mercato, fatto di studi clinici che partono dal laboratorio, cosiddetti “in vitro”, per poi passare ad ospiti un po’ più evoluti, tipo topolini, prima di arrivare a vere sperimentazioni su pazienti umani, o presunti tali.
E tali procedure non si esplicano nell’arco di una mattinata uggiosa, ma sono lunghe e delicate.
Le regole fondamentali per tali studi clinici sono fissate da organismi di riferimento, spesso nazionali e sovranazionali. Quelli più importanti sono l’FDA statunitense (Food and Drug Administration), ente USA per il controllo degli alimenti e dei farmaci, e l’europea EMA (European Medicines Agency), Agenzia Europea per i Medicinali. Tali enti fanno da riferimento, oltre che per il proprio ambito nazionale, anche per molte altre agenzie nazionali. Non è raro ad esempio che un ente canadese si rifaccia alle regole che solitamente richiede l’FDA americano, e così altri verso l’EMA europeo.
Il percorso di un farmaco in Italia è il seguente.
In primis deve avere l’autorizzazione dell’Agenzia Italiana per il Farmaco AIFA, o dell’EMA.
Poi occorre eseguire i test clinici, e qui ci sono tre fasi:
1) si somministra il farmaco a pochi volontari sani, per vedere sicurezza e tollerabilità;
2) si verifica in circa due anni se il farmaco riesce a produrre i benefici desiderati su un bel gruppo di volontari malati;
3)  si verificano su migliaia di casi efficacia e benefici, anche rispetto a prodotti simili già in commercio, ed il rapporto tra rischi e benefici.
Per fare un esempio, alla fine degli anni '70 l’FDA per approvare un farmaco impiegava una media di 35 mesi tra controlli e richieste documentali importanti; nel tempo le procedure si sono snellite (forse anche troppo), per cui ultimamente i tempi si sono ridotti a meno di un anno.
Spesso capita che l’agenzia richiami procedure facilitate per prodotti, che poi successivamente si scopre essere inefficaci, se non addirittura dannosi. Ciò ha portato a sollevare dubbi non indifferenti sulla cristallinità di certe procedure, sia da parte delle aziende che da parte dell’agenzia stessa.
Uno studio recente indica che la procedura rapida negli Stati Uniti sia salita a circa il 75% dei nuovi farmaci presentati ogni anno.
Commenti a latere?   
"Questa modalità sta diventando la norma" - Caleb Alexander della John Hopkins University of Mariland
"Gli standard di verifica sono gli stessi" - FDA
"Per approvare un farmaco si accontentano di meno test" - Jonathan Darrow della Harward Medical School.
"Nelle approvazioni accelerate si tende ad abbassare l’asticella" - Barbara Mintzes dell’Università di Sidney  
Ed in Europa?
L’approvazione per così dire facilitata è diventata prassi comune anche nel vecchio continente. L’EMA dal 2006 rilascia delle "autorizzazioni all’immissione in commercio condizionata" a farmaci per malattie gravi o rare; questo per certi versi è forse più accettabile, perché magari possono essere considerati farmaci salvavita, ma non sempre è così.
La cosa che mi lascia più perplesso è che una procedura facilitata tende a non valutare con accuratezza eventuali controindicazioni, che con tempi più congrui si possono riscontrare in uno studio ben condotto.
Altra considerazione va indirizzata ad una serie di farmaci rivolti verso una singola patologia: le nuove metodologie normative, spesso, non prendono in considerazione lo studio associato, la verifica di quale sia il migliore. Ed il tutto sarebbe solo a vantaggio del paziente, non certo delle aziende produttrici, spesso multinazionali lobbistiche.
Adam Cifu della facoltà di Medicina dell’Università di Chicago fa un esempio concreto: "Prendiamo la torvastatina, la pravastatina e la simvastatina (farmaci per il controllo del colesterolo nel sangue) sono diverse tra loro. Ma non abbiamo studi comparativi, né singoli test controllati con placebo da confrontare tra loro, quindi non è chiaro quale sia la migliore".
La cosa aberrante è che la procedura agevolata, il più delle volte, è utilizzata per farmaci antitumorali, non tenendo conto delle conseguenze invalidanti che spesso hanno per i pazienti, tanto che dopo anni che sono in commercio ancora non sappiamo se migliorano o meno la vita dei pazienti stessi. 
Spesso sono ricercatori indipendenti, di sperdute università, che si mettono a verificare questi farmaci, e non è raro avere delle risposte raccapriccianti. Ad esempio, di 48 antitumorali EMA immessi con procedura agevolata, solo il 10% ha dato riscontri positivi sul miglioramento della vita dei pazienti. FDA dal 1996 al 2007 ha immesso in commercio 97 antitumorali, ma solo 19 sembrano essere migliorativi nell’aspettativa di vita dei pazienti.
Quando un farmaco è in commercio è difficile che si possa far ritirare. 
Ciò mi riporta alla mente un caso che direttamente colpì il nostro territorio. Anni fa una famosa multinazionale aveva investito in zona, prevedendo un importante piano di investimenti futuri che avrebbero dato futuro a molte famiglie della zona. Solo che appena agli inizi di questa avventura inciampò in un incidente di percorso: un farmaco per il controllo dei grassi nel sangue, dopo l’immissione in commercio, risultò pericoloso (furono addirittura dimostrati dei casi di morte dovuti alla sua assunzione). Gli organi di controllo degli Stati Uniti imposero all’azienda un’enorme multa ed il ritiro del farmaco, ciò spinse l’azienda sull’orlo del fallimento, evento che la costrinse a ridimensionare tutti i suoi progetti, in particolare azzerando tutti quelli sul nostro territorio.
Per quanto riguarda i farmaci e gli enti di controllo e verifica, il discorso è lungo e complesso, e richiederebbe spazio e tempo: parlare delle varie tipologie di farmaci, dell’impatto che hanno sui pazienti, dell’impatto che hanno sulla politica dei prezzi al consumo anche certe pratiche utilizzate dagli organi stessi, come per esempio per i farmaci “orfani”(si tratta di particolari farmaci per malattie rare, che diventano appannaggio esclusivo di certe aziende anche per molti anni e ciò permette a queste di praticare dei prezzi da strozzini): prendiamo ad esempio il prezzo del Makena, utilizzato negli Stati Uniti e prescritto per i casi di gravidanze a rischio, che dopo la definizione di farmaco “orfano”, è schizzato a $ 1200 a dose, $ 30000 per una intera gravidanza; ed il bello è che pare non sia nemmeno efficace, ma il tutto è frutto di una licenza agevolata.
I numerosissimi casi simili che possiamo richiamare ci fanno pensare che forse questi organismi si muovono ad esclusivo interesse delle aziende, da cui peraltro dipendono, in quanto le aziende devolvono ogni anno ingenti fondi per mantenere l’FDA, per esempio.
La finalità della mia riflessione serve per comprendere la complessità dell’immissione in commercio di un nuovo farmaco, quale potrebbe essere l’ipotetico vaccino per il covid-19, per cui dal momento in cui esso si troverà alla sua commercializzazione passeranno due anni minimo, quindi da oggi almeno tre totali.
State sereni, ma più che altro... STATE A CASA! Perché, per cavarne le gambe, l’unica alternativa valida è quella che il covid si esaurisca da solo, come fece a suo tempo la Sars. E se oggi tirano fuori il vaccino, con la procedura agevolata, tra un anno lo avremo. Ma sarà sicuro? Chi ne sarà sicuro che sarà sicuro?

L’Irlandese Volante

3 commenti:

  1. io sono , col tempo e la pazienza, per il gregge....
    tanto ci dovremo convivere col virusse.
    e poi chi ci assicura che non muterà ancora, magri in meglio per l'umanità?
    un po' di positività, per Dio.

    p.s.
    sti scienziati e dottori hanno rotto il cazzo: stiano più zitti, che ogni giorno escono con decine di pareri diversi e contrastanti che mutano e si contraddicono continuamente.

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  2. La Germania riapre i negozi.
    La Danimarca riapre le scuole.
    Il Tour de France parte il 29 agosto.
    Ecc. Ecc.
    Da noi si aspetta che finisca zero casi in Lombardia? A me pare una gigantesca pagliacciata, almeno in Toscana.
    Ah no ok mascherine obbligatorie nemmeno si fosse a Milano, grazie Rossi.
    Mi tocca dillo, W Zaia

    Nato sulle lastre

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  3. Non so dirle se è una pagliacciata o meno,avrei bisogno di dati che ignoro...
    Innanzitutto occorre sapere come è attrezzata la sanità locale, nel senso se capita il platò in pochi giorni, se siamo capaci di reggere l'urto, poi se è vera che una terapia anticoagulante migliora notevolmente la sopravvivenza al virus.
    Saputo ciò potrei dire se si potrebbe riaprire il tutto o meno, perchè occorre sempre pensare ai soggetti più deboli e non a chi potrebbe affrontare tranquillamente la malattia.....
    Buon fine settimana
    P.S. io in quarantena sono a reddito 0 (zero), così per chiarezza

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