Ed eccolo qua, l'ultimo intervento delle Leopoldelle. La parola a Francesco Manganelli, che tanto fastidio ha dato a coloro i quali vorrebbero negare (???) oggi la parola a chi (fra l'altro) si è ufficialmente presentato alle elezioni comunali. Ma poi... fastidio perché, di che? Leggete e tirate le vostre conclusioni, ma con la propria testa. Shock in my town!
Non era facile presentarsi seduto al concone delle Leopoldelle quando si è sempre stati dall’altra parte della sala. Non era facile presentarsi come esponente di una frazione della destra quando si ha il cuore che batte anche a sinistra. Non era infine facile presentarsi a parlare delle logiche e delle prospettive di un quadro politico che appare sospeso ed immobile, quando lo stesso termine “prospettiva” implica un’accezione di dinamicità che appare estranea al contesto cittadino.
Un quadro politico che mi ha visto dignitosa comparsa alle elezioni comunali dello scorso giugno. Dignitosa, dal momento che la velleità di rappresentare una parte politica non allineata al sistema rappresenta di per sé un atto rivoluzionario. Comparsa, dal momento che questo stesso disallineamento dal sistema è prodromico ad un ulteriore isolamento.
Mi sono candidato come capolista per CasaPound. Con lo scopo, nemmeno troppo nascosto, di rappresentare la voce di una parte di Siena che nel passato è stata condannata alla morte civile. Perché a Siena – in un passato nemmeno troppo remoto – si redigevano liste di proscrizione; si decretava la morte civile, il fuoriuscitismo tanto caro a questa parte del mondo sette o otto secoli fa. Un eretico, epiteto del quale rivendico la primogenitura prima che venisse accolto da altri, espressione di quella corrente che, a seconda di come la si guardi, può affascinare o disgustare, essere considerata antisistema, antiborghese, votata alla sconfitta e per questo nobile e generosa o invece una mascheratura della reazione, per irretire ed incalanare energie e metterle al servizio degli assetti che si vorrebbero abbattere.
Capire cosa sia accaduto a Siena a fine giugno è quanto di più facile ed immediato. Niente. Non è accaduto niente. Il PD è uscito sconfitto dalle elezioni, ha perso il Comune, la faccia ed anche un po' di potere. Ha vinto De Mossi, la Lega è passata a svuotare il botteghino senza aver sfondato, nuovi amministratori saranno in carica per i prossimi anni. Ma non è accaduto niente di particolare. La “crisi del sistema”, la “incapacità di elaborare una rappresentanza” rimbombano come eco sterile in un quadro di totale immobilismo. Come se la campagna elettorale non fosse mai terminata. Due Palii e una barberata ottobrina, un paio di provvedimenti per rimediare a qualche disastro della Giunta precedente, un paio di giri di valzer sulle nomine ed un accenno di minirimpasto per rimediare. E la medesima sensazione di staticità che aleggia dal giugno scorso.
I salotti possono aver cambiato qualche ospite. Non la forma, l’etichetta ed i rituali cortigiani. Possiamo chiamarle nuovi gruppi di potere, benchè il termine “nuovi” sia un po' forzato. Gli anglosassoni, gente che ad eccezione del calcio di seconda o terza serie non stimo in modo incondizionato (sono ancora legato all’augurio con il quale Mario Appelius chiudeva le trasmissioni dell’Eiar) nell’arte della politica possono ancora insegnare qualcosa, persino ai levantini italiani. E Siena è la più levantina delle città di quella parte del mondo che gli anglosassoni definiscono “levante”, appellando la sponda orientale del Mediterraneo come Medio Oriente, insinuando furbescamente che vi sia anche un Vicino Oriente, del quale facciamo evidentemente parte. Gli anglosassoni, dicevamo, chiamano questi gruppi di potere “elites” per ammantarle di un’aurea esotica ed apparentemente innocua. Oppure “lobbies”, quando neppure si sforzano di mascherarne l’operato e la difesa dei propri interessi.
Quale che sia il nome che vogliamo utilizzare, nessuna rivoluzione è avvenuta lo scorso giugno. Nessun evento epocale. Al massimo potremmo scomodare un ribaltone, accezione poco nobile ed ancor meno epico. Ma con questo dobbiamo fare i conti.
Abbiamo assistito, nel corso degli ultimi decenni, ad un deterioramento del tessuto sociale, fenomeno che in una città a prova di fabbriche e nella quale lo stereotipo dell’operaio trinariciuto alla Grot di Metropolis è l’impiegatino del terziario, appare ancor più grottesco e preoccupante. Ad essa si è sommata una deriva autorefenziale delle elites. O delle lobbies. O dei gruppi di potere. Di interesse. Di salotto, insomma. Interessate a mantenere una mascheratura ed una illusione ottica di novità, oppure di rappresentanza, di civicità, o di semplice appartenza partitica. Individuare luci anche lontane che possano far immaginare un cambio di rotta è esercizio accademico, o da ultras da curva dell’una o dell’altra parte.
Peggio di questa Amministrazione e della precedente, c’è la prossima.
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