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venerdì 5 ottobre 2018

Le fiabole

Ci sono fiabe e ci sono favole... Basta soltanto saperle distinguere. Poi ci sono le fiabole, ma questa è un’altra storia.
Il vecchio riposava sdraiato all’ombra di un leccio, cercando di ripararsi dal calore afoso di un pomeriggio pigro, ancora piuttosto estivo nonostante il calendario. Proteggendosi dal riverbero del sole, appoggiò la mano destra sulla fronte a mo’ di saluto militare e strizzò gli occhi per seguire con lo sguardo la corsa del bimbo, impegnato nel tentativo vano di far volare il suo aquilone. La mattinata era trascorsa via veloce. Il bambino, figlio di suo figlio, ultimo di tre nipoti, non ne aveva voluto di andare all’asilo e lui, con il cuore gonfio di amore, aveva acconsentito al piccolo strappo alla regola. Adorava quel bambino vivace e intelligente: "Il veleno sta nella coda", gli diceva spesso. "E tu, essendo l’ultimo di tre fratelli, sei il più velenoso". Il piccolo rideva felice e lo abbracciava stretto, cingendogli il collo con le braccia esili e lasciando che la barba ispida del vecchio gli solleticasse la delicata pelle delle guance. 
Da qualche mese l’uomo aveva deciso di lasciare la città e rifugiarsi nella vecchia casa di famiglia, abbandonata da anni e semi nascosta dalle erbacce. Il podere sorgeva a metà strada tra Siena e Arezzo, immerso in un verde che in certi giorni di primavera faceva male agli occhi. Di quel luogo amava i profumi, che, al pari dell’umore delle persone, mutavano al variare delle stagioni. In primavera il viale sterrato che collegava la casa alla strada asfaltata era invaso dall’essenza dei maestosi tigli che da secoli lo costeggiavano. Poi c’era il profumo del gelsomino aggrappato ai muri della capanna diroccata, che una tempo serviva da ricovero per gli attrezzi, quello della polvere della trebbiatura, l’aroma dei girasoli in fioritura ed infine la vendemmia. Ma ogni posto da quelle parti aveva la sua fragranza. In cucina l’odore di cenere proveniente dal grosso focolare, aleggiava sulle cose come un fantasma. Il camino, un tempo perfettamente funzionante, doveva aver riscaldato tutti gli abitanti della zona, tanto era grande, mentre adesso era diventato la cuccia di Rodrigo Taddei, il meticcio trovatello marrone, inseparabile amico del vecchio. L’aria della cantina invece cantina sapeva di incenso. "È colpa del cipresso", sentì dire un giorno dal geometra al quale tanti anni prima aveva chiesto di valutare la proprietà per metterla in vendita. "Qui dentro sembra di essere in sagrestia", aveva aggiunto poi quest’ultimo. Perplesso, il vecchio si era fatto spiegare che l’odore di molte chiese antiche era dovuto al materiale con il quale venivano costruiti gli ornamenti sacri. Che quasi sempre era legno di cipresso. 
Lui invece amava i castagni, l’autunno e la favole di Perrault. Cenerentola era la sua preferita. Le ricordava la sua Robur, che tanti anni prima, da sconosciuta squadretta di provincia, era riuscita ad arrivare nel calcio che conta: "Al gran ballo del re", ripeteva spesso, guardando le vecchie foto appese alle pareti dello studio.
Ritornando con la mente al presente, l’anziano lanciò un croccantino al cane, che ridestandosi dal suo quotidiano letargo lo afferrò al volo. "Vieni Rodrigo Taddei" gli disse. "È l’ora di provare a far volare quell’aquilone". Il cane non parve badare più di tanto a quell’invito e tornò a sdraiarsi. "Rodrigotaddei?", si chiese l’uomo, appiccicando insieme le due parole, come a formare un solo vocabolo. "Che razza di nome". Poi, abbandonando il fresco dell’ombra, lasciò che la forza dei raggi del sole gli scaldasse la schiena, mentre la luce accesa del meriggio gli incendiava la chioma bianca, trasformandola in una sorta di aureola. 
L’uomo non aveva mai pensato alla morte; almeno fino alla domenica precedente, quando, fermo sui gradoni dello stadio, aveva inavvertitamente ascoltato la conversazione di due ragazze sedute poco distanti da lui, durante la quale una raccontava all’altra del suo primo lancio in paracadute, avvenuto tanti anni prima: "Poco prima di buttarmi confessai all’istruttore che se qualche cosa fosse andata storto non sarebbe stato un problema, perché sarei morta nel fare ciò che volevo. Adesso invece, a distanza di venti anni, capisco che mi sarei persa un sacco di cose e una vita meravigliosa: marito, figli e Siena in Serie A". Il vecchio aveva riposto quella frase in un canterano del suo cervello ma da giorni oramai non faceva altro che ritirarla fuori. Anche per lui la morte non era mai stata un problema. "Tanto è come il Natale", ripeteva spesso agli amici di contrada, "quando arriva arriva". Adesso invece, quelle poche parole rubate gli avevano improvvisamente aperto gli occhi. "Cosa mi perderò dopo la morte?". Un leggero timore aveva cominciato a serpeggiare nella sua mente e piano piano da inquietudine si stava trasformando in paura. Sapeva di non poter fermare il tempo, ma sperava di averne ancora a sufficienza per togliersi ancora qualche soddisfazione. "Prima di morire vorrei rivincere un palio". E pensando ai colori della sua contrada, tornò bambino. "Poi vorrei abbracciare di nuovo la nonna, partita troppo presto per un viaggio senza meta e senza ritorno, per il quale presto dovrò partire anch’io. E poi vorrei vedere di nuovo il Siena in Serie B". 
Come molti della sua generazione, la Robur era l’unica squadra di calcio da seguire e anzi... il calcio era il Siena e viceversa. Niente scudetti, miliardi o coppe di campioni. Per quelli come lui c’era soltanto un appuntamento fisso ogni due settimane: il Rastrello e la sua partita. Il tabellone luminoso con i numeri rossi dell’orario sopra la gradinata, le partite alle 14.30 con il cielo plumbeo e le maglie strette, con le righe sottili e i pantaloncini attillati. Quello era il suo mondo. Mondo fatto di gioie (poche) e dolori (tanti). Botte prese e botte date, delusioni e sogni infranti, elicità e frustrazioni. I giovani si ricordavano soltanto dei tempi d’oro, quando il nemico veniva da città lontane, grosse dieci volte Siena, ma lui invece rammentava bene i bei tempi dei tanti derby. Livorno, Perugia, persino Arezzo. 
Girando lo sguardo verso est, il vecchio cercò fra la foschia dell’orizzonte un segno che testimoniasse la presenza della città, nascosta da qualche parte dietro alle colline. "Nonno", gridò il piccolo mostrandogli l’aquilone, come a volerlo tirare fuori dal pozzo in cui si era cacciato. Arezzo era una ferita aperta che ancora sanguinava. L’anno prima, durante una stagione emozionante sospesa a metà fra favola e fiaba, il destino aveva pesantemente beffato la Robur, costringendola a sfiorare ben due volte la promozione. La tappa di Arezzo, durante un fresco pomeriggio di aprile, da crocevia fondamentale si era mestamente trasformato in un calvario. "I giovani non capiscono cosa significhi per noi perdere il campionato con quei rospi antipatici e supponenti, incapaci persino di parlare in italiano". Un velo di amarezza lo avvolse, mentre una rivolo di malinconia prendeva il sopravvento sui ricordi. "Chissà quanto tempo passerà adesso, prima di tornare primi in classifica?", bofonchiò a denti stretti. Il bimbo, sudato e felice, gli porse l’aquilone: "Nonno, lo fai volare te?", gli chiese con occhi colmi di speranza di chi sa solo fidarsi. E senza attendere una risposta proseguì: "Poi mi racconti una fiabola?". Il vecchio sorrise e srotolando un po’ di lenza attese l’arrivo di una folata di vento caldo che investì il piccolo telaio di plastica facendolo sobbalzare nell’aria. La tela bianconera si tese per la tensione e il piccolo aquilone puntò dritto verso le nuvole. "Forza Robur", pensò il vecchio tra le urla di gioia del piccolo, "torna a volare". Poi lasciando che l’aquilone si librasse nell’azzurro del cielo chiamò a sé il bimbo e, porgendogli il gomitolo del lungo filo di nylon, lo fece accomodare sulle sue ginocchia, prima di iniziare a parlare: "Tanti anni fa, prima che tu nascessi, c’era una volta una squadra...".

Siena - Arezzo: voglio vincere. Come l’anno scorso, per dimenticare l’anno scorso. Scrolliamoci di dosso questi mesi e riprendiamo la marcia. Infischiandocene di chi c'abbiamo davanti. Noi siamo il Siena, loro no. E loro lo sanno e ci sformano. E più lo sanno, più ci sformano. E disperati, non gli rimane altro che offendere. Vincere per i tre punti, fregandosene di tutto il resto, perché quella con l’Arezzo è una partita come le altre. I nostri derby sono altri.

...tira in porta e marca il gol!


Mirko

4 commenti:

  1. Il fatto che Pane continui ad allenarsi con la squadra è una vergogna assoluta!

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    1. Mr. SNAI volevi dire

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    2. Bravo Vaira! Due anni di contratto gli avete fatto a questo personaggio.
      Carlino

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  2. ...quel che si suole definire il dono della sintesi.

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