Morte è un vocabolo orribile, creato dall’uomo per definire con parole povere la fine delle vita. Mi fa strano, però, pensare che un solo termine, così semplice e corto, possa descrivere un concetto tanto complesso, come se dirlo rapidamente potesse alleviare un po’ il dolore. Ma l’uomo, si sa, ha sempre fretta e deve sintetizzare tutto. Ridurre ai minimi termini, disse un giorno la maestra. E, facendo finta di capire, le sorrisi. E poi le parole non sono mai povere, nemmeno quelle più umili e misere. Ci sono parole importanti, pericolose e inutili, ma di povere non ne conosco. Sì, credo proprio ci sia una bella differenza tra miseria e povertà. E non può essere soltanto una questione di ricchezza, eleganza o condizione sociale.
Fine settimana di quasi primavera, il cielo si oscura mentre gli animali interrompono il loro letargo e nelle vigne la vite, aggrappata con le sue lunghe radici alla zolla di terra sulla quale è nata, ritorna alla vita e ricomincia a stabilire legami con l’ambiante circostante. Col passare dei giorni imparerà a riconoscere la pioggia e a non fidarsi del vento, arrivando persino a smettere di fiorire se qualcosa dovesse andare storto. La vite, meravigliosa arbusto rampicante, incapace da sola di salire verso il cielo, durante la sua esistenza mette radici e stabilisce legami.
Il sabato sera della terza settimana di quaresima comincia così, intriso di pensieri pesanti come la spessa coltre di nuvole che oscura le stelle. Il cielo appoggiato sopra i riflettori dello stadio sembra plumbeo, anche se la pioggia dei giorni scorsi ha finalmente concesso una tregua. Da qualche parte, oltre il Monte Amiata, ci deve essere Viterbo. Cammino in silenzio per le vie del centro, volgendo lo sguardo verso un punto immaginario, fissato proprio in fondo all’orizzonte. Nel punto in cui Toscana e Lazio si toccano, sul confine meridionale della provincia di Siena, comincia il territorio di Viterbo. Ma tutto sembra appartenere allo stesso paesaggio, senza soluzione di continuità. Sul campo, invece, il confine è netto. Bianconeri da una parte, gialloblu dall’altra. Nel mezzo tre punti pesanti come una pietra durissima, che nemmeno la goccia più insistente potrà mai scavare. Sul campo, come punto da una tarantola, un ragazzo corre con la palla al piede. A dirla tutta lo fa da quando, per la prima volta, ha messo piede in città. Ma adesso pare farlo con più convinzione. Ha un nome da papa ed un cognome medievale. Sacro e profano, spirituale e temporale, bianco e nero. Come i colori che difende. Sulle spalle porta il 25, anche se quel numero pare troppo grande per la sua schiena. Senza pensarci due volte, il giovane agguanta un pallone vagante e inizia a correre. Corri citto, corri. E Francesco corre, anche se di nome potrebbe fare tranquillamente Jonathan, vista la sua trasvolata da dimensione avventura. Il 25 bianco su sfondo nero si tende come lo spinnaker del Moro di Venezia. Tutt’intorno, la gente si alza in piedi. Sembra il tedoforo delle olimpiadi tra due ali di folla. Lo stadio assiste in silenzio. Sono solo attimi, ma durano una vita. La palla danza accanto al piede, come un cagnolino al ritorno del padrone. L’uomo è come la vite: mette radici e stabilisce legami. Le radici sono dentro al simbolo che il ragazzo in maglia nera porta all’altezza del cuore. In quello stemma diviso in quarti bianco e neri c’è tutto lo spirito di appartenenza di un popolo ferito che con orgoglio sta ritrovando la strada di casa, dopo averla smarrita. Il signore seduto alla mia destra mi afferra con forza l’avambraccio. Ci conosciamo appena, ma quella stretta trasmette molto di più di un semplice saluto. Nell’era delle connessioni, per un istante riesco ad afferrare cosa significa essere in sintonia. La porta si avvicina e le dita stringono con più forza. Anche da sotto i vestiti, riesco a sentire il calore della pelle. L’uomo è come la vite: mette radici e stabilisce legami. Un legame unico ed invisibile adesso unisce tutto lo stadio: l’atmosfera si fa incandescente e l’aria comincia a scarseggiare. Un passo, un altro e un altro ancora. Gli avversari arrancano nel disperato tentativo di arginare quel fiume in piena, nato nella propria area ed esondato nella metà campo ospite. Il tempo diventa materico e gli istanti cominciano a pesare. L’attesa è spessa, come il vetro di una banca. La morte un giorno dovrà occuparsi anche di ordinare questo ricordo, che per il momento fisso da qualche parte poco dietro le orecchie. All’improvviso la palla dopo essersi staccata dal piede passa sotto al corpo del portiere - "caduto alla difesa ultima vana" come nella poesia di Umberto Saba, tristemente imparata a memoria in terza elementare - varca la linea ed entra in porta. Sugli spalti, i grandi tornano bambini mentre i ragazzi giocano a fare gli adulti. Tutt’intorno mille voci diverse scandiscono un nome solo. Il giovane, ancora non sazio, continua la sua corsa verso la bandierina del calcio d’angolo dalla parte del murellino. La gente batte le mani e salta entusiasta. I compagni lo travolgono. Radici da difendere e legami da rinsaldare. Una corsa, un tiro, un goal. E un boato che scuote le fondamenta e abbatte le torri. E pensare che qualcuno lo considera ancora soltanto un gioco.
Siena - Viterbese: col vento in poppa e l’incoscienza della gioventù, puntiamo verso il traguardo infischiandocene di tutti e di tutto. Non importa chi è primo o chi è secondo, quante partite ci sono da recuperare o quali calcoli dovranno essere fatti. Il Siena non è roba per matematici. E per il momento conta soltanto essere ancora lassù, una spanna sopra a tutti gli altri.
Tutti insieme uniti avanzeremo.
Fine settimana di quasi primavera, il cielo si oscura mentre gli animali interrompono il loro letargo e nelle vigne la vite, aggrappata con le sue lunghe radici alla zolla di terra sulla quale è nata, ritorna alla vita e ricomincia a stabilire legami con l’ambiante circostante. Col passare dei giorni imparerà a riconoscere la pioggia e a non fidarsi del vento, arrivando persino a smettere di fiorire se qualcosa dovesse andare storto. La vite, meravigliosa arbusto rampicante, incapace da sola di salire verso il cielo, durante la sua esistenza mette radici e stabilisce legami.
Il sabato sera della terza settimana di quaresima comincia così, intriso di pensieri pesanti come la spessa coltre di nuvole che oscura le stelle. Il cielo appoggiato sopra i riflettori dello stadio sembra plumbeo, anche se la pioggia dei giorni scorsi ha finalmente concesso una tregua. Da qualche parte, oltre il Monte Amiata, ci deve essere Viterbo. Cammino in silenzio per le vie del centro, volgendo lo sguardo verso un punto immaginario, fissato proprio in fondo all’orizzonte. Nel punto in cui Toscana e Lazio si toccano, sul confine meridionale della provincia di Siena, comincia il territorio di Viterbo. Ma tutto sembra appartenere allo stesso paesaggio, senza soluzione di continuità. Sul campo, invece, il confine è netto. Bianconeri da una parte, gialloblu dall’altra. Nel mezzo tre punti pesanti come una pietra durissima, che nemmeno la goccia più insistente potrà mai scavare. Sul campo, come punto da una tarantola, un ragazzo corre con la palla al piede. A dirla tutta lo fa da quando, per la prima volta, ha messo piede in città. Ma adesso pare farlo con più convinzione. Ha un nome da papa ed un cognome medievale. Sacro e profano, spirituale e temporale, bianco e nero. Come i colori che difende. Sulle spalle porta il 25, anche se quel numero pare troppo grande per la sua schiena. Senza pensarci due volte, il giovane agguanta un pallone vagante e inizia a correre. Corri citto, corri. E Francesco corre, anche se di nome potrebbe fare tranquillamente Jonathan, vista la sua trasvolata da dimensione avventura. Il 25 bianco su sfondo nero si tende come lo spinnaker del Moro di Venezia. Tutt’intorno, la gente si alza in piedi. Sembra il tedoforo delle olimpiadi tra due ali di folla. Lo stadio assiste in silenzio. Sono solo attimi, ma durano una vita. La palla danza accanto al piede, come un cagnolino al ritorno del padrone. L’uomo è come la vite: mette radici e stabilisce legami. Le radici sono dentro al simbolo che il ragazzo in maglia nera porta all’altezza del cuore. In quello stemma diviso in quarti bianco e neri c’è tutto lo spirito di appartenenza di un popolo ferito che con orgoglio sta ritrovando la strada di casa, dopo averla smarrita. Il signore seduto alla mia destra mi afferra con forza l’avambraccio. Ci conosciamo appena, ma quella stretta trasmette molto di più di un semplice saluto. Nell’era delle connessioni, per un istante riesco ad afferrare cosa significa essere in sintonia. La porta si avvicina e le dita stringono con più forza. Anche da sotto i vestiti, riesco a sentire il calore della pelle. L’uomo è come la vite: mette radici e stabilisce legami. Un legame unico ed invisibile adesso unisce tutto lo stadio: l’atmosfera si fa incandescente e l’aria comincia a scarseggiare. Un passo, un altro e un altro ancora. Gli avversari arrancano nel disperato tentativo di arginare quel fiume in piena, nato nella propria area ed esondato nella metà campo ospite. Il tempo diventa materico e gli istanti cominciano a pesare. L’attesa è spessa, come il vetro di una banca. La morte un giorno dovrà occuparsi anche di ordinare questo ricordo, che per il momento fisso da qualche parte poco dietro le orecchie. All’improvviso la palla dopo essersi staccata dal piede passa sotto al corpo del portiere - "caduto alla difesa ultima vana" come nella poesia di Umberto Saba, tristemente imparata a memoria in terza elementare - varca la linea ed entra in porta. Sugli spalti, i grandi tornano bambini mentre i ragazzi giocano a fare gli adulti. Tutt’intorno mille voci diverse scandiscono un nome solo. Il giovane, ancora non sazio, continua la sua corsa verso la bandierina del calcio d’angolo dalla parte del murellino. La gente batte le mani e salta entusiasta. I compagni lo travolgono. Radici da difendere e legami da rinsaldare. Una corsa, un tiro, un goal. E un boato che scuote le fondamenta e abbatte le torri. E pensare che qualcuno lo considera ancora soltanto un gioco.
Siena - Viterbese: col vento in poppa e l’incoscienza della gioventù, puntiamo verso il traguardo infischiandocene di tutti e di tutto. Non importa chi è primo o chi è secondo, quante partite ci sono da recuperare o quali calcoli dovranno essere fatti. Il Siena non è roba per matematici. E per il momento conta soltanto essere ancora lassù, una spanna sopra a tutti gli altri.
Tutti insieme uniti avanzeremo.
Mirko
Bellissimo, grazie per averlo scritto.
RispondiEliminaLa FUGA PER LA VITTORIA di Francesco Vassallo è stata così travolgente che solo la penna di Mirko poteva immortalarla
RispondiElimina������
Eliminabrividi
RispondiElimina❤️
RispondiElimina...non oso neanche pensare cosa potresti scriverci se...
RispondiEliminaCuorenero.