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giovedì 29 marzo 2018

La primavera

La gente lo guardava passare. Qualcuno restava attonito dinnanzi al suo incedere veloce. Passi piccoli, sguardo deciso. A volte gli dei pagani si travestono da uomini, per confondersi tra la gente e trasformare la storia in leggenda. Aveva una dannata fretta, ma nessuno capiva il perché. C’era un progetto da compiere e pochi anni per farlo.
E poi non poteva aspettare che il tempo mettesse a posto le cose, perché tanto il tempo passa e basta, senza sistemare mai niente; e i buchi diventano sempre più grandi. 
Come sempre succede, da principio camminava da solo, rasentando i muri nel più completo silenzio. Pelata lucida e baffi chiari macchiati dalla nicotina. Chi disse che fosse un cialtrone, chi disse che fosse un eroe. E quel sorriso poi, tipico di chi è abituato a sfidare la vita, controllando i monsoni e domando gli alisei, arrivava sempre prima di lui. 
Aveva una dannata fretta, adesso ho scoperto perché. Da qualche parte, perso in fondo al panciotto, forse nascondeva un grosso orologio da taschino, di quelli in argento cesellato e l’apertura a scatto, fissato ai pantaloni con una catenella lucida. Dopo ogni punto strappato dalle grinfie di una classifica arida e sterile, controllava le lancette: è tardi, pensava. Aveva un progetto troppo grande per questa città così minuscola, quartiere piccolo d’Italia. E la gente non capiva, perché le persone capiscono soltanto ciò che vogliono. Forse anche lui se ne rese conto ad un certo punto, respirando l’aria stantia dei salotti buoni, ma non mollò la presa. Anzi, riprese il suo cammino aumentando lo sforzo. Non vedeva chi gli si parava davanti, perché i suoi occhi erano fissi su di un punto lontano, dietro l’orizzonte, dove il tempo curva, l’oggi si confonde con il domani e la realtà si mischia ai sogni. 
Le giornate passavano ed il Siena precipitava verso il basso. Il girone d’andata della nostra seconda B si stava mestamente spegnendo, come i pomeriggi di sole di un noioso dicembre, sempre troppo stretto fra l’autunno e il Natale. Anche le stelle sembravano meno luminose in quel periodo. Telefonini e Grande Fratello. Nel mezzo, un campionato mediocre e una fine scontata. Eppure nelle sue parole c’era qualcosa di strano. Per noi invece c’erano soltanto domeniche da buttar via o da scappare a nascondersi sotto il letto. La città sembrava addormentata. Nessuno riusciva a vedere oltre la nebbia, soltanto lui poteva farlo. E quando le luci della notte diventavano piccole come migliaia di lucciole, lui architettava il suo piano. 
Esseri così da queste parti passano una volta ogni 500 anni. Lo capimmo soltanto dopo e ringraziammo comunque il cielo per avere avuto l’occasione di vederlo. Aveva Siena nel cuore e Genova nel destino. Anche quello lo scoprimmo dopo, perché per noi la vita andava vissuta giorno dopo giorno, lui invece sapeva già tutto. E, giorno dopo giorno, il passo divenne trotto. Adesso qualcuno alzava la testa al suo passaggio, mentre qualche folle cominciava addirittura a seguirlo. La primavera rimpiazzava l’inverno e la Robur rimontava. Non c’era tempo: l’orologio era sempre stato piuttosto chiaro per il più senese dei napoletani. 
Un bel giorno di aprile, caldo e luminoso, durante il quale i raggi del sole tornavano a decorare il cielo dopo mesi di nuvole, rientrando dall’ennesima finale di quel pazzo campionato, la città parve scossa da un fremito. Il pallore della pelle povera di emozioni fu ben presto sostituito da colori più accesi. Come l’arto indolenzito da una lunga inattività, tutti parvero attraversati da un lungo formicolio. Il trotto adesso stava diventando galoppo. Il più napoletano dei senesi non era più solo. Correva per le vie del centro inseguito da uno sciame di persone. Se fosse stata Philadelphia, sarebbe stato bello come Rocky. 
Quanto manca, si chiese una sera di inizio giugno, controllando l’orologio della vita. Poco, gli rispose la sua coscienza. E allora, mentre tutti festeggiavano una salvezza che sapeva di miracolo, lui fece la cosa più insensata: raccolse tutta la fantasia di cui disponeva e spostò la linea del traguardo cento metri più avanti. Aveva poco tempo, ma si sentiva un uomo fortunato: sapendo sognare poteva vivere una favola. Ma non quella triste cantata da Vasco, ma una favola unica col finale stupendo. Lui sapeva che la città poteva svegliarsi e iniziare a correre insieme a lui. E allora con calma ci insegnò anche a sognare. 
Adesso nessuno lo chiamava più per cognome. Per tutti era soltanto il Presidente. Non c’erano la banca a proteggerlo o un paracadute politico per attutire la caduta. Intorno a lui c’era soltanto la lucida follia di un progetto ambizioso, troppo bello soltanto a pensarlo. Sapeva ciò che stava rischiando, ma sorrideva lo stesso. Soltanto del tempo aveva paura. E forse amava la primavera. Partì da Marassi e lì volle tornare, per guardare dal campo tutta quella gente assiepata in tribuna, che lui aveva risvegliato dal brutto incantesimo in cui era caduta. Pianse quella sera e noi con lui. In quelle lacrime c’era tutta la sana felicità di gente normale che per un frammento di vita si vede passare davanti il bagliore luminoso di una stella cometa. Arrivammo alla fine col fiatone, perché quel fantastico 2003 noi non lo vivemmo, ma lo galleggiammo un metro e mezzo sopra la realtà, nel punto esatto in cui la fantasia incontra la speranza e ne scaturisce il mito. Quel signore dallo sguardo fiero, nato partenopeo e morto senese, c’aveva regalato la Serie A, la prima e la più bella. Dominando in lungo e in largo per tutto lo Stivale: quell’anno là, soltanto nell’album delle figurine la Sampdoria ci stette davanti. 
Sì, doveva amare proprio la primavera. Lo capimmo anche l’anno dopo quando, raggiungendo la prima di mille salvezze, tutte belle e tutte diverse, stavamo guadagnando un posto importante nel calcio dei grandi. La sabbia della clessidra si stava piano piano esaurendo. I capelli sulle tempie sempre più radi e la pelle del volto quasi trasparente non promettevano niente di buono. Eppure quella sera d’inverno corse lo stesso sotto la curva. Quella stessa curva che da qualche tempo aveva cominciato a fischiarlo. 
Manco a farlo a posta, se ne andò in silenzio una domenica di primavera. Non cadde: semplicemente partì. Come a volerlo salutare, il Siena vinse a Reggio Calabria. Lo sgomento invase i nostri cuori, forse stava finendo un sogno e l’impatto con il suolo sarebbe stato durissimo. Ma il peggio aveva ancora da venire. Quella sera, ripensando a tutto quello che di buono c’aveva donato, ci sentivamo tranquilli, perché per una volta nella vita, a fianco di quell’uomo, avevamo vinto tutti. E una calda notte di primavera ci sentimmo tranquilli, nel realizzare di essere giunti dove gli altri non riusciranno mai ad arrivare.
Paolo De Luca il mio Presidente! L’uomo dei miei vent’anni. Finisco di scrivere mentre piango come un cittino. Forse sarà il vento che alza la polvere e asciuga il bucato, oppure è soltanto questa aria fresca di primavera.

Siena - Pistoiese 2-0: altri tre punti per continuare la corsa. Fino alla fine forza la Robur!

Pontedera - Siena: un’altra sfida, altri 90 minuti, altri punti da conquistare. A Undici anni da quel 31 Marzo 2007, andiamo a prenderci la vittoria, guidati dall’alto dal nostro condottiero. Non è più il tempo di tirare di fioretto. Adesso è l’ora della spada.

Tutti uniti insieme avanzeremo.


Mirko

3 commenti:

  1. Bravo Mirko; Paolo ancora nel mio cuore.

    Gianluca

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  2. bellissimo, mi hai fatto tornare seduto a un tavolo apparecchiato all'aria aperta, a diciassette anni, quando paolo ci battezzó scherzosamente (io non fiatai, preferii ascoltare e assorbire ogni parola) la sua intellighenzia. Grazie mirko

    tsu

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  3. OGGI come allora...tanti ricordi che non si cancellano...MAI!

    Cuorenero.

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