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lunedì 11 dicembre 2017

Il sedicesimo gradino

Tic tac. Notte fonda. Nel sonno devo aver perso le coperte, ma stranamente non avverto freddo. Fuori il buio sembra mordere la fioca luce dei lampioni, mentre raffiche di pioggia gelida spazzano la strada, sulla quale danzano le ombre degli alberi, scossi dai colpi di un vento rabbioso.
Dentro, la stanza si accende e si spenge con monotona alternanza, illuminata dal nervoso ritmo intermittente delle lucine appese all’albero di Natale. Tic Tac e flash. Scoordinati fra di loro e ripetuti all’infinito: il primo nel buio, il secondo nel silenzio.

Come una frase di un messaggio cifrato, disperso nello spazio a beneficio di una qualche civiltà lontana, il suono ed il lampo sembrano gli ultimi due segnali in grado di ricordare all’universo l’esistenza del genere umano. Fra un po’ tuttavia fará giorno, penso, e la luce del sole si porterà via i miei fantasmi. Nel frigo, una bottiglia di vino bianco aperta mi guarda da dietro il cartone del latte. E’ lì dall’ultima volta che ho avuto ospiti a cena, anche se oramai saranno passati mesi. Annoiato, l’afferro per il lungo collo trasparente e dopo aver estratto il tappo di sughero stringendolo tra i denti come nei film, mi sbarazzo del contenuto rovesciandolo nell’acquaio. A contatto con la mano, il vetro è freddo. Rapidamente nell’aria si diffonde un fastidioso aroma acetoso di vino andato a male. I vapori pungono i ricettori olfattivi nascosti da qualche parte dentro al naso, cancellando dalla mia testa anche l’ultimo residuo di sonno rimasto. Dopo aver gettato la bottiglia nel contenitore del vetro, mi siedo davanti al televisore spento, la cui presenza è segnalata soltanto da un piccolo puntino rosso sospeso a mezza altezza nella parete. Nel buio cerco il telecomando, tastando la stoffa del divano con il palmo della mano. All’improvviso intorno a me avverto un impercettibile cambiamento. Per un secondo ho l’impressione che luci dell’albero si siano soffermate un po’ troppo sul buio, allungandone la durata. All’unisono, come diretti da un vecchio e severo maestro, un tic tac ed un flash irrompono contemporaneamente nel soggiorno. No, non mi sbagliavo. Adesso la stanza pare un carillon. O forse una giostra. 
Nel piazzale, uno sportello si apre e si chiude rapidamente. Qualcuno sta tornando a casa. Una manciata di colpi secchi martella l’asfalto: il rumore sembra provenire da un paio di scarpe da donna, di quelle con il tacco alto. Da ciò che posso capire, seduto al caldo sul mio divano, che chiunque sia là fuori si sta muovendo in fretta. In compagnia di un tic tac e di un flash, aspetto che quel qualcuno inserisca la chiave dentro la serratura. Provo ad immaginarla ferma di fronte al portone di vetro e metallo, intenta nel frugare dentro alla borsetta. Senza smettere di cercare, adesso sposta il peso da una gamba all’altra: dopo una serata con le scarpe da sera, molto probabilmente le faranno male i piedi. Nel freddo della notte, impreca contro qualcosa o qualcuno. Non riesco a distinguere le parole, ma forse riconosco la voce. Chiudendo gli occhi, la immagino sbattere rapidamente i piedi sulla soglia, come a volersi proteggere dal freddo, mentre il velo leggero delle calze di nylon pare incapace di contrastare l’avanzata dell’inverno. Alla fine le fatiche della sua ricerca vengono premiate: incastrato tra l’astuccio dei trucchi e il borsello, come per magia appare il mazzo di chiavi. Passandole tra indice e pollice trova finalmente quella giusta e con un sospiro apre la porta di quel tanto che le basta per passare. Il leggero spostamento d’aria causato dall’apertura del portone si ripercuote intorno a me, facendo tremare i vetri delle finestre. Svelta, la ragazza si avvia a passi svelti verso le scale. 
Sedici gradini ripartite in due rampe da otto, divise fra di loro da un piccolo ballatoio, separano il mio appartamento dall’ingresso del palazzo. Sul primo scalino, la ragazza ha un’esitazione: forse ha dimenticato qualcosa in auto. Deve essere veramente un oggetto importante se non puo’ recuperarlo domani mattina. Immerso nei miei pensieri, avverto un’improvvisa voglia di parlare. Chissá, forse potrei aprire la porta nel momento esatto in cui transita davanti alla mia e con nonchalance potrei invitarla a prendere un caffè… Noo, certe cose succedono soltanto al cinema. La ragazza, che decido di chiamare Olimpia, divora la prima rampa saltando tutti gli scalini pari, come in quel gioco che faceva da bambina, quando con le sue amiche si ostinavano a salire le scale a due e due o ad attraversare le strade sulle strisce pedonali senza calpestare il bianco. Mi sento solo! Lo capisco origliando i passi di un estraneo. Avrei voglia di tatuarmi qualcosa sul petto, anche se per coprire le cicatrici sul cuore non basterà un tatuaggio. Olimpia adesso supera il ballatoio e attacca la seconda rampa. Avesse un libro in mano, magari potrei far finta di averlo letto e darmi un'aria sofisticata. Forse ascolta musica regge. Oppure cucina col Bimby. Ho voglia di parlarle. Se questo palazzo avesse un terrazzo condominiale, la inviterei a salire fin lassù, coprendole le spalle con la mia giacca, anche se momentaneamente indosso soltanto questo buffo pigiama con gli orsi. Magari potrei parlarle della la Robur, che lunedì gioca a Piacenza una partita che potrò seguire soltanto alla tv. E prendendo la palla al balzo, potrei proporle di vederla insieme. Da me. Osservandola senza farmi notare, le parlerei del tatuaggio che vorrei farmi, confidandole di non comprendere chi si ferma al primo. Lei mi guarderebbe incerta e io ripeterei la storia dei marinai: per la quale il primo tatuaggio va fatto quando salpi, il secondo quando attracchi dall’altra parte del mare ed il terzo quando ritorni finalmente a casa. Tre o multipli di tre, sempre.
Credo sia giunta a metà della seconda rampa, tra qualche secondo mi sfilerà davanti e tutto sarà finito. Il solo pensiero mi rende triste. Il quindicesimo scalino è l’ultima barriere fra me e lei, dopodiché ci dividerà soltanto la porta. Mi sento sporco mentre scosto l’otturatore dello spioncino, ritrovandomela improvvisamente davanti. Una ciocca di capelli ramati le è sfuggita dal cappello e adesso le ricade sulla sciarpa bianca. Inconsapevole, procede con calma nella mia direzione. Un passo. Due, tre. Stella, vorrei gridare forte! La mia mano stringe con violenza la maniglia d’ottone, mentre per la tensione le nocche si sbiancano. Adesso siamo vicinissimi, separati soltanto da un sottile diaframma di legno. Un attimo prima di perderla però, l’oscurità cala in mezzo a noi. Olimpia arresta la sua marcia. Incerta, non sa se proseguire al buio o cercare la luce. La sento strusciare la mano sul muro, le unghie smaltate di fresco sfiorano il portaombrelli. Poi la immagino accarezzare il mio campanello (quanto vorrei lo suonasse per sbaglio, dandomi un’insperata opportunità!). Adesso sì, è molto vicina: se pronunciassi il suo nome, forse mi sentirebbe. Alle mie spalle l’albero ha smesso di brillare e l’orologio non batte più il tempo. Clic. Un lampo dorato mi acceca: incollato allo spioncino mi sento come un moderno Polifemo, mentre la mia Ulisse gira l’angolo e scompare nella notte.

Piacenza - Siena: nel gelo della Pianura Padana, un po' in Emilia e un po' in Lombardia, per riprendere la nostra corsa verso i piani nobili della classifica, momentaneamente interrotta dalla neve di Cuneo. Avanti Roburrone, tira in porta e marca il goal!

Tutti insieme uniti avanzeremo.


Mirko

2 commenti:

  1. ....e subito dopo che "Olimpia"ha girato l'angolo,ricca sega "a memento"!!

    El Cinico(gingolbel).

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