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mercoledì 11 ottobre 2017

... quassù!

"L’aria quassù ha odore di neve", cantava Raffaele Riefoli da Margherita di Savoia circa una ventina di anni fa. Era forse uno degli ultimi successi importanti della sua carriera, che da lì in poi avrebbe vissuto più di rendita che di altro.
Raf in quella canzone non parlava di sport, anche se nel video trasmesso in rotazione giornaliera da VideoMusic, sotto alle note della canzone, si sviluppavano le immagini in bianco e nero (toh, che coincidenza...) di uno sciatore, sguardo fiero e orgogliosa mascella squadrata, in procinto di prendere la rincorsa dal trampolino e volare via lontano. "Salto nel blu" si chiamava quel pezzo. 

Era il 1996, non avevo ancora diciotto anni ed i sogni erano di gran lunga superiori agli incubi. Per scacciare la paura bastava una Moretti. Facevamo a meno di what’s app, non c’erano i social e mancava anche You Tube. Di virale c’era solo l’influenza. Che arrivava inesorabile dopo le vacanze di Natale e falcidiava gli studenti. "Motivi di salute" scrivevamo nelle giustificazioni, accompagnando il foglietto di carta leggera con il certificato medico, nel caso in cui l’assenza dalle lezioni si fosse prolungata per oltre tre giorni. Ordini del preside, chiosava il professore. 
La neve è il fenomeno atmosferico che meno ha a che fare con Olbia. Anzi, a pensarci bene, ci cozza contro terribilmente. Come il formaggio sul pesce o una camicia a fiori sui pantaloni a quadretti. Eppure al fischio finale l’aria è apparsa di colpo limpida e pulita come in alta montagna, dopo una camminata di due ore verso quel piccolo rifugio. Che visto dalla valle sembrava proprio irraggiungibile. Dopo l’ultimo passo, posato lo zaino e postata la foto, la testa è risultata sgombra da pensieri tristi. Al centro del petto invece il cuore rimbombava come il mortaretto di piazza. Gli occhi impreparati alla luce, faticavano ancora a mettere a fuoco il panorama, i confini sembravano sfocati e immagini piccole e distorte. Ma i polmoni inalavano ossigeno fresco. Depurato da polveri e scorie. Guardare le cose dall’alto le rende proprio diverse.
Quassù, al primo posto della classifica, abbiamo finalmente l’occasione di vedere tutto. E ciò che osserviamo è un mondo che cambia domenica dopo domenica. Spezzati in due dalla fatica della scalata, ci fermiamo un attimo per riprendere fiato. Un sorso d’acqua fresca per bagnarci la gola ed è già venerdì. La punta della lingua passa sulle labbra seccate dal libeccio, portando sollievo sulla carne disidratata. Salire fin quassù è stato uno sforzo. Ma sicuramente ne è valsa la pena. Una volta in cima, ci guardiamo intorno con l’aria spaesata di chi non c’è abituato. Come lo sposo che passa fra i tavoli durante il rinfresco.
Abbiamo lo stesso sguardo di colui che risale in soffitta dopo tanti anni e rivede ciò che la memoria aveva smesso di ricordare. Un vecchio abito, una pila di libri, un paio di album zeppi di fotografie. E anche se l’intento era quello di fare pulizia, si siede a gambe incrociate nell’angolo più lontano, dove correva a nascondersi da bambino e comincia a ricordare. Sotto la piccola finestra a tetto, nell’unico angolo baciato dalla luce del sole, sfiora con la punta delle dita le cose del suo passato, tracciando righe sottili nella polvere depositata dal lento scorrere del tempo sulle copertine dei testi di scuola. E come se il solo tocco potesse stabilire un ponte temporale fra presente e passato, si perde nei ricordi. I minuti passano lenti mentre i rumori giù in strada si fanno sempre più lievi e nelle case si accendono i lampadari. Il fresco della sera scaccia il calore del sole. È quasi l’ora di scendere, pensa l’uomo salito in soffitta per caso, solo per fare pulizia o passare due ore per ingannare una domenica apatica e vuota, come una relazione al capolinea.
Tra le scatole spunta una bandiera bianca e nera. Non ricorda come sia finita lì. Ma rammenta bene quando la sventolava dalla curva, nelle domeniche acerbe durante le quali vincere era quasi più difficile che sognare. Di colpo un brivido gli attraversa la schiena. La stomaco ha un sussulto ed i peli sulle braccia si drizzano elettrici. Quassù, uno scalino sopra le nuvole, siamo soli con la vetta delle montagne. Qualche uccello, un aereo, forse la luna. E noi.
Quassù siamo giunti con l’intento di rimanerci, perché il primato potrebbe rafforzarci, domenica dopo domenica. Una volta giunti in alto possiamo finalmente liberarci una volta per tutte dalle fetenti scorie di un passato (recente) pesante, dalle ansie da prestazione, dalla paura di vincere. In cima alla scala siamo più vicini a coloro che per anni ci hanno accompagnato e adesso ci proteggono senza farsi vedere. Per una volta, nel campo di Olbia, il nero ha sventolato sul bianco color. Terza vittoria esterna di fila. Zero sconfitte e pochissimi goal subiti. Avanti avanti e marca il goal.
La musica finisce, fuori è notte. Le pizzerie si svuotano. Palle di luce arancione appese ai lampioni illuminano il buio. Ecco allora che lo sciatore in bianco e nero prende la rincorsa e si stacca dal blocco di partenza. Piegato sulle ginocchia scende veloce, accompagnato dal solito vuoto che è dentro di lui. Acquista velocità e finalmente spicca quel balzo che da anni sogna di fare. E finalmente vola. Per dimenticare il passato e aprire le porte al domani. Staccandosi dal trampolino l’atleta si sente finalmente in simbiosi con il cielo. Impacciato al suolo, elegante in volo. Come l’Albatros letto sull’antologia. Anche la Robur dopo la metamorfosi estiva si libra finalmente nell’aria, dopo gli impacci della scorsa stagione. Lo sciatore però non si ferma. Punta l’orizzonte e senza voltarsi, decide di non tornare più indietro. Da qualche parte là in fondo, subito dopo la vallata, qualcosa di nuovo dal sapore antico potrebbe attenderlo. Là potrebbe fermarsi e ricominciare una nuova avventura. Perché il senso della vita non può essere soltanto un grande salto.

Siena - Olbia 1 - 2: vinciamo ancora fuori casa segnando ancora due goal. Siamo una macchina da trasferta e iniziamo finalmente a far paura a tutti. Siamo di nuovo i primi della classe e l’unico zero è quello sotto la voce sconfitte. Forse non sappiamo ancora quanto siamo forti, perché ignoriamo i nostri limiti. Se è vero come dicono che l’appetito vien mangiando, spero ancora di avere tanta fame. E se è vero come è vero che la squadra va, adesso sta alla gente fare la sua parte e tornare a riempire le tribune dello stadio.

Tutti insieme uniti avanzeremo.


Mirko

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