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martedì 24 ottobre 2017

16 minuti

Ottobre non è nemmeno finito, che novembre è già pronto per entrare. Impaziente, preme, pressa e mette fretta e addirittura sembra quasi sgomitare.
Di nascosto da tutti sparla con dicembre e flirta con gennaio. Come quelle signore che vanno dal dottore cinque volte a settimana e si lamentano sempre che gli altri ci stanno troppo. E magari impiegano tre quarti d’ora per farsi segnare le medicine. Ah, brutta cosa invecchiare.
Il pomeriggio passa in fretta ma tanto la domenica è sempre così: colazione, pranzo ed è già lunedì. Occhieggiando da dietro le nuvole, il sole disegna il suo arco su un cielo velato, così basso che pare appoggiato sulla terra. Là in mezzo, da qualche parte, quasi abbandonata sulle colline da un pittore distratto, la città aspetta più in meno in silenzio la fine della domenica e l’inizio di una nuova settimana. Nei parcheggi davanti ai cimiteri si ricominciano a vedere le macchine ed i fiorai tornano a sorridere, fiutando il profumo dei soldi. La notte inizia a prendere forma proprio mentre l’arbitro fischia l’inizio di un Viterbese - Siena colmo di aspettative, speranze e timori. La temperatura esterna scende di pari passo con l’aumentare del battito del cuore. 

Pronti via e ad al 4° minuto siamo già in vantaggio. Nel settore ospiti qualcuno arriva in ritardo e chiede: "Scusate, che è successo?". "S’è appena segnato", risponde un signore sulla cinquantina con un cappello nero, parlando con un filo di voce, come a voler evitare di farsi sentire dagli dei. 
La mia serata potrebbe anche finire qui. La Robur vince e i ragazzi nelle camere sono già in pigiama: domani arriva in fretta e il tram per la scuola non aspetta. Controllo il calendario: ma non dovrebbe cambiare l’ora? No, forse ancora è presto. 
La Viterbese attacca, un po’ come novembre: preme, pressa e mette fretta. Dal sito dei Fedelissimi arrivano notizie contrastanti. Non ricordo perché ho scelto di non vedere la partita, ma sicuramente mi pento della mia idea. Il primo tempo vola via come un sussurro. Le emozioni filtrate da internet arrivano ad intermittenza, accendendosi e spengendosi come la lucine colorate dell’albero di Natale. 
Dopo tanta Viterbese, sul finir del tempo arriva anche lo 0 - 2. Oh mamma, ma è vero? Prendo il telefono e compongo due numeri a caso. Vorrei chiamare qualcuno che forse è allo stadio per chiedergli se è tutto vero. Mi fermo, ci ripenso, desisto. Arriva l’intervallo e con lui il "quarto d’ora d’aria". Serie A, Gran Premio e di nuovo Serie A. La televisione soccombe sotto i colpi del telecomando. 
Ricomincia la partita: tutto sembra filare liscio, 5, 10, 20 minuti e il tempo scorre via. Loro attaccano e noi ripartiamo. 
Arriva il 74° rintocco e alla fine ne mancano soltanto 16. Il bisbiglio si fa brusio. Rigore! Per chi? Per loro. Nooo! Tiro: goal! 1 - 2. 
Il sito impazzisce e smette di aggiornare: ore dopo sarà sempre lì. Come se il tempo si fosse arrestato un attimo dopo quel rigoraccio. O forse è soltanto il mio telefono che non vuole più saperne di niente.
Certo, avrei mille altri modi per restare aggiornato ma mancano soltanto 16 minuti e non mi va di spezzare quell’equilibrio magico che si era creato con il cosmo. Infilo una felpa ed esco di casa. In 16 minuti potrebbe cambiare tutto: potremmo decollare o rimanere attaccati al suolo. Sulla soglia mi calo il cappuccio fin sopra gli occhi. Sfilando accanto ai campanelli, leggo il mio nome sul citofono, per capire se l’uomo che abita in casa mia assomigli ancora un po’ a ciò che da ragazzo speravo di diventare, ai tempi in cui non era facile distinguere la differenza tra Sandokan e Che Guevara. Inizio a camminare sotto la luce sintetica dei lampioni, immerso in quell’arancione triste che fa ovunque periferia. I secondi scorrono, ma dentro di me mancano ancora 16 minuti. Vorrei sapere in anticipo come finirà: guardo il cielo per scorgere un segnale. Non credo nell’oroscopo e per sicurezza nemmeno lo leggo. Credo invece nei sogni, ma non sono praticante. Cammino a passo svelto prigioniero di un tempo infinito, lungo giusto 16 minuti. Attraverso strade deserte con la sensazione di essere seguito. Mi volto di scatto, ma non c’è nessuno. Guardo meglio, stringo gli occhi e alla fine vedo. Lentamente dietro di me si sta radunando un gruppetto di ombre. Sono i tanti piccoli dubbi che lentamente cominciano a farsi strada nel mio cervello. Il cuore inizia a battere più forte. Ancora 16 minuti, penso, e tutto sarà finito. Comincio a correre. Vorrei tenerli lontano. Mi volto ancora, ma i dubbi sono sempre lì e mi sorridono beffardi. Più corro veloce e più loro si avvicinano. Solo 16 minuti e non ti prenderanno. Corro più forte e loro dietro, come in un corteo: adesso il quartiere sembra Philadelphia e io mi sento Rocky. Vorrei poter tirare fuori il mio vecchio fucile a sogni e ucciderli tutti. Imbocco un vicolo cieco in salita, arrivo in cima col fiatone, mi volto una terza volta. Sono praticamente dietro di me. Nei loro visi si legge l’irritazione per la fatica alla quale li ho costretti. Addirittura ne riconosco un paio: sono trent’anni che mi accompagnano. Riprendo fiato. Nel frattempo i miei inseguitori hanno praticamente coperto il pezzo di strada che ci separava. Quello che pare essere il capo o forse il padre di tutti i dubbi li sferza a muoversi più velocemente. Mi accerchiano. Lo guardo come si guarda un vecchio parente: è talmente tanto tempo che ci conosciamo, che oramai per Natale ci scambiamo gli auguri. La strada finisce davanti a un muro bianco. 16 minuti adesso saranno passati penso. 
Afferro il telefono dalla tasca dei pantaloni. Mi scivola di mano e cade sull’asfalto umido. Sembra un film dell’orrore dal finale scontato. Peccato non ci siano telecamere in giro. Recupero l’apparecchio proprio mentre il cicalio della vibrazione mi notifica l’arrivo di un messaggio. Lo apro e tutto attorno a me pare cristallizzarsi. Stringo il telefono con troppa forza, il sangue defluisce velocemente dalle nocche delle mani, diventate bianche per lo sforzo. Il capo dei dubbi e i suoi 16 scagnozzi, uno per minuto, mi guarda con aria di sfida. Muove le labbra senza parlare. Testa o croce, mi pare dica. O forse me lo immagino. Dietro di lui un dubbio dalle sembianze di donna mi sorride mellifluo, ancheggiando sfacciatamente. Abbasso lo sguardo sul display: vittoria o pareggio? Leggo, metto a fuoco, rileggo. E alla fine realizzo. Alzo lo sguardo e giro lo schermo verso i miei inseguitori. 
La partita non è ancora finita, ma adesso non ha più importanza. Perché niente ha più importanza quando vince la Robur. Il mio nemico mi guarda immobile, le pupille dei suoi occhi si fanno due pozzi neri nello sforzo di leggere: "Campagnacci! 1 - 3. E la Robur va!”. 
Un lampo squarcia il cielo sereno! Mi sfilo il cappuccio. La testa priva di capelli riflette la luce. A pochi passi, così vicino che riesco ad avvertire il tanfo del suo alito, il capo dei dubbi, incerto, inizia ad indietreggiare. Passo al contrattacco. Siamo ancora primi e ci vogliamo rimanere a lungo. Lo spingo giù per la discesa. Dietro di lui gli altri sgherri se la danno a gambe. Niente è più potente di una vittoria. I dubbi cominciano a dissolversi. 16 minuti sono passati e adesso la notte appare un poco più luminosa. Poco prima di sparire, inghiottito dal buio, il capo dei dubbi mi squadra con disprezzo, prima di puntarmi addosso l’indice ed esclamare: "Non finisce qui! Torneremo". Forte delle mie certezze, come un quindicenne all’uscita di scuola, lo guardo con aria di sfida e mostrandogli il medio lo saluto: "Torna pure. Ti aspettiamo. E saremo in tanti questa volta".

Viterbese - Siena 1-3: si vince in casa e si vince fuori, dimostrando di essere squadra tosta, determinata e sicuramente democratica: vincendo con tutti, non si fa torto a nessuno… Zitti zitti, piano piano continuiamo a guardare il mondo dall’alto, mentre sotto di noi i pescecani girano in cerchio, sempre più frustrati. Avanti Robur, guarda adesso come sventola la tua bandiera!

Tutti uniti insieme avanzeremo.


Mirko

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