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mercoledì 6 settembre 2017

Antidoto e veleno

Se la vita fosse una grossa berlina tedesca, di quelle nere e lucide che si vedono sfrecciare il sabato sera sulla corsia di sorpasso mentre il conducente ci guarda con sdegnoso ribrezzo, vorrei poter alzare i fari e illuminare a giorno la nostra stagione. Per cercare di scorgere dietro la linea del tempo cosa ci riserverà il futuro.
Bucare la densa coltre di mistero che separa l’oggi dal domani e, senza aspettare il lento scorrere dei giorni, provare a capire fin da adesso dove saremo in grado di arrivare. Quanti alti e quali bassi ci accompagneranno nel corso di quest’annata. Appena nata ma già ricca di emozioni.
Se la vita fosse una tela bianca, proverei a dipingerci sopra un pensiero felice. Di quelli che non si sa bene cosa vogliono dire, ma che mettono allegria in chi li guarda. E soltanto a lavoro concluso mi accorgerei di aver disegnato con il colore nero. Guardandolo poi, cercherei un segnale, un indizio o una traccia in grado di rilassare la mia sete di sapere prima di regalarlo al guardiano del tempo per barattarlo con una sola domanda: dove saremo a maggio?
Settembre è un mese meraviglioso per chi può permetterselo. Le giornate rinfrescano e le notti si allungano. La vita torna alla normalità dopo mesi sospesi sull’incertezza dell’estate. In cima alla torre sventola fiera la bandiera rossa con la croce pallata, solleticata da una leggera brezza di terra che, spirando dalle colline, accarezza i tetti delle case e arriva a lambire il mare. Mare a cui Pisa deve tutta la sua fortuna. Lo stadio è ancora là, dove lo avevamo lasciato l’ultima volta. In mezzo alle case, ma nessuno pare lamentarsi. Senza parcheggi, ma nessuno sembra provare fastidio. A volte basta veramente spostarsi solo di 100 km da casa e trovare un altro mondo. In mezzo ai tifosi pisani passeggio con calma, godendomi un attimo di quiete che sa di altri tempi, lontano anni luce dal calcio moderno. Poco prima del fischio di inizio il celeste del cielo vira velocemente verso il blu scuro, lasciando soltanto una pennellata di arancione a separarlo dall’orizzonte. Come un antico mercante di una repubblica marinara senza porto, mi sento anch’io in partenza per qualcosa di misterioso. Mentre la domenica volge al termine mi frugo dentro, cercando nei miei pensieri una parola di conforto che possa fugare i miei dubbi. Se sei in cerca di risposte, questo forse è il posto giusto, mi sussurra tutto ad un tratto una vocina. Era la stessa di diciassette anni fa. O forse sono solo io che voglio pensarla così.
Se la vita fosse un viaggio, credo che un giorno passerebbe anche da Pisa. Senza fermarsi a lungo però. Giusto due ore: il tempo di un caffè e una foto. O di una partita di calcio. I turisti arrivano, scattano e vanno altrove. C’è chi viene e c’è chi va. Un gruppetto di ragazze immerse dentro all’addio al nubilato di una biondina ridono felici. Hanno tacchi troppo alti e lo sanno. Ma non gli importa. Qualcuno scrive una cartolina. Un signore telefona a casa: forse è troppo tempo che è lontano e sta provando nostalgia. In molti fanno finta di raddrizzare la torre, lasciandosi fotografare piegati in avanti con le braccia distese e i palmi delle mani aperti, per creare quel triste effetto ottico da social network. Come novelli Atlanti, per un attimo hanno forse la sensazione di sorreggere da soli 500 anni di storia: da Galileo ad Eusepi. Tanto per mischiare il sacro col profano. La torre è famosa perché è storta, disse un giorno qualcuno. Relegando un capolavoro mozzafiato unico al mondo sotto la voce “fenomeni da baraccone”. E nel formulare questo ricordo, mi accorgo per la prima volta di quanto sia riduttivo il giudizio del distratto, che proprio non riesce ad andare oltre all’apparenza. Dalle casse di un furgoncino/bar appostato poco fuori la piazza, fuoriesce una canzone malinconica: riconosco la voce familiare di Lucio Dalla. "Si muove la città, con le piazze, i giardini, la gente nel bar".

Ripenso a quel giorno di aprile di tanti anni fa, quando si mosse veramente la città per seguire la Robur nella prima tappa di un viaggio memorabile, che l’avrebbe condotta ai confini dell’umana immaginazione. Da Pisa spiccammo il volo e da Pisa dobbiamo ripassare per tornare in alto. Le parole de “La sera dei miracoli” mi accompagnano fino alla stadio. Forse questa sera non è una sera come le altre. Forse è una di “quelle” sere strane in cui tutto potrebbe avere inizio. O tutto potrebbe rimanere così. E visto come vanno le cose, forse sarebbe già tanto.
La partita inizia e la gioia si fonde con la paura. Le emozioni vanno a folate e una dopo l’altra si rincorrono per tutto il primo tempo. La brezza adesso è girata e soffia dal mare. Che visto da Pisa è più una sensazione che una meta. Con il vento gira anche il nostro umore. Finalmente la gente batte le mani contenta. Le pochi voci bianconere bucano i canti dello strepitoso pubblico neroazzurro. Loro hanno fatto la serie A trenta anni fa e sono in 10.000. Noi ci abbiamo abitato per due lustri quasi fino all’altro giorno e fatichiamo ad arrivare a 200. Ma in compenso siamo diventati bravissimi a fabbricare scuse. Il Siena per una sera è padrona del campo. E noi ci sentiamo per qualche minuto padroni del nostro futuro. Come se un antidoto misterioso avesse curato di colpo tutto il veleno che scorreva nelle nostre vene. Mi soffermo un attimo a rimuginare, colto da un pensiero sfuggente, di quelli che fanno capolino ma non se la sentono subito di uscire e se ne rimangono lì, a nuotare sotto il pelo della coscienza. Per poco non si fa goal. Il cuore accelera di quel tanto che basta che per riaccendere emozioni sopite. Alla fine catturo il pensiero col retino, pescandolo dalle acque torbide e limacciose del pensato. Lo guardo come si guarda un pesce, tenendolo con entrambe le mani all’altezza dei miei occhi. Il pensiero si agita, sbatte la coda, schizza. Gli antichi greci utilizzavano la medesima parola per definire sia il veleno che l’antidoto. E alla fine capisco.
Soltanto la Robur potrà guarirci dal male che ci ha fatto la sua fine. Soltanto la sua rinascita sarà in grado di cancellare il dolore della sua morte.
La partita finisce, il cielo ormai è blu intenso. La città si gode un fresco riposo dopo mesi di calura opprimente. Libero il pensiero lasciandolo ritornare a fluttuare sotto pelle, mentre mi scortico le mani per applaudire la squadra. E i ragazzi ricambiano. Senza tuttavia mostrare la solita arroganza sguaiata da copertina, avanzano di qualche metro verso il nostro settore, prima di fermarsi e tornare indietro. Rispettosi di un rapporto ancora da costruire e stando bene attenti a non oltrepassare quella linea immaginaria che separa il dottore dall’ammalato. Sanno di essere la nostra cura e vogliono guadagnarsi la nostra ammirazione un passo alla volta.

Pisa - Siena: a maggio magari racconteremo un altro campionato. Finiremo la stagione di nuovo imbronciati, delusi e insoddisfatti. A maggio forse sarà così, ma adesso non lo so. Quindi, per una settimana, è il momento di tornare a sperare in qualcosa che c’era e adesso non c’è più, che ci hanno strappato con violenza dalle mani, convincendoci che non l’avessimo mai meritata. Avanti piccola grande Robur! Riprenditi la tua gente.

Tutti uniti insieme avanzeremo.


Mirko

1 commento:

  1. Gran bel pezzo. L'ho letto tutto volentieri. Ho ritrovato persino un minimo di entusiasmo e orgoglio, anche se si fosse perso al 94mo come capita e ci capitava contro gli squadroni. Complimenti alla Curva del Pisa, ma a chi la organizza a livello di striscioni, bandiere e fumogeni. Come tifo, lascia perdere, che loro cantavano si è no in 500... Gli altri 3500 della curva moccolavano, difatti a malapena si sentivano, se non a sprazzi...

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