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venerdì 10 febbraio 2017

Il Siena, il Prato e gli anni '90

È inutile che me lo ricordiate, tanto lo so da me. Il tempo delle mele è finito da un pezzo, il banco che lasciai libero alla fine delle superiori presto sarà occupato da mia figlia e tra qualche anno varcherò la soglia dei 40.
Forse dovrei accettare la realtà senza lamentarmi, fare buon viso a cattivo gioco e finirla col sognare ad occhi aperti davanti ad immagini sconnesse e ricordi sbiaditi dal tempo. E smettere una volta per tutte di parlare di momenti felici che difficilmente torneranno.
Ma poi arriva il giovedì, la settimana volge al termine e fra qualche giorno la Robur scenderà di nuovo in campo. Ed io francamente faccio una fatica bestiale a collocare la partita Siena – Prato nel presente. Perché, almeno per i due neuroni sub-affittati in nero dal mio cervello, tale sfida appartiene solo al passato. Agli anni '90 per l’esattezza, epoca che si fa ogni giorno più lontana, anche se a ripensarci bene, crescere in quel decennio non è stato poi così male. Negli ultimi dieci anni del secolo Silvione prometteva posti di lavoro come se piovesse, Romano ci portava in Europa facendoci credere di aver fatto un affare col cambio lira/euro (ah semmai…) e il Monte diventava spa e si quotava in borsa.
Calcisticamente parlando, per il Siena l’anno dei Mondiali del '90 si era aperto con la promozione dalla C2 e, a parte la sciagurata retrocessione del 1993, dalla quale venimmo salvati da un fortuito ripescaggio, arrivammo finalmente ad occupare la C1, antenata di questa orribile Lega Pro, in pianta stabile. Essendo la suddetta categoria divisa in due gironi, tutti le estati dovevamo però vivere col fiato sospeso nell’attesa di conoscere in quale dei due ci avrebbero inserito. All’inizio, per nostra sfortuna, finimmo spesso in quello infernale del Sud Italia. Poi negli anni dopo Tangentopoli, clamoroso fenomeno gattopardesco di inutile e mai completamente avvenuto rinnovamento politico, la Lega Lombarda di Umberto Bossi cominciò a parlare di Roma ladrona e federalismo. La visione geografica di Siena fu pesantemente rivista. Da lì in avanti, passammo la seconda metà del decennio ad affrontare le squadre del Centro Nord: tra le quali anche il Prato. Tuttavia, a causa della mia visione romantica del mondo, prigioniera di un retaggio colturale da istituto tecnico ed intrappolata all’interno di orizzonti troppo costipati fra il mare, il Monte Amiata e gli Appennini, la sfida coi lanieri per me non è mai stata un derby. Ma forse in quegli anni là, quando ancora si girava per le strade di città con il Fifty Top ed un litro di miscela al due per cento costava a male pena 1.200 lire, ero troppo impegnato a pensare ad altro per concentrarmi su questo pensiero.
Nella follia dei diciotto anni, la mia fobia era il telefono. Credo di essere uno dei pochi Italiani nati nella seconda metà degli anni '70 a non aver mai fatto o ricevuto una telefonata durante l’adolescenza. A dir la verità, provavo un vero e proprio senso di repulsione per quel coso grigio con la ghiera bucherellata, che quando girava emetteva lo stesso rumore della ruota della fortuna vista alla Festa dell’Unità. Un biglietto 1.000 lire, otto biglietti 2.000: via, si gioca per la spalla! Io in verità ero poco propenso alla vita mondana, ascoltavo la mia musica nella penombra della cameretta e, come in preda ad un delirio di autistico desiderio di ricordare, mi sforzavo di imparare i testi a memoria. La Robur regalava emozioni a intervalli regolari, come le targhe alterne della crisi del petrolio raccontate dai genitori. Vivacchiavamo – esattamente come adesso – in terza serie, faticando persino ad immaginarci in Serie B. Il Prato veniva a Siena una volta l’anno e noi facevamo il contrario con la stessa frequenza. A volte si vinceva, altre si perdeva, spesso si pareggiava. In un’occasione particolare, ai loro tifosi fu concessa addirittura l’uso della gradinata: il settore ospiti era ancora un prato (guarda te, che coincidenza) e la curvetta di cemento la stavano costruendo. Per farlo ci misero quattro mesi. Se penso che anni dopo per tirare su uno stadio – di ferro ok, ma sempre uno stadio - da 15.000 posti ci impiegarono un'estate, mi ci scappa da ridere. Nelle cuffiette collegate al mio walkman risuonava spesso “La mia Coccinella” dei Sottotono. Mi piaceva il punto in cui snocciolando un numero di telefono il cantante diceva: "823168 – Ciao sono Tormento". Nonostante la mia fobia per i telefoni, un giorno provai anche a digitarlo quel numero. Chissà quanti altri dei miei coetanei l’hanno fatto. Non so cosa mi aspettassi di trovare dall’altro capo del filo, ma le scosse elettromagnetico che ricevetti come risposta mi convinsero a riappendere la cornetta. Tuttavia grazie ad una canzone avevo iniziato a combattere la mia fobia. Che presto si sarebbe trasformata in follia.
Non avevamo la tecnologia di adesso, ma si viveva bene lo stesso. Le città non erano inquinate e le polveri sottili non superavano mai la soglia di guardia. O almeno così ci raccontavano i giornali. Sganciavamo ordigni ovunque, dall’Iraq alla Serbia, ma le bombe erano intelligenti e chirurgiche e nessuno moriva: almeno secondo Studio Aperto di Emilio Fede. La parola crisi non esisteva e la pubblicità dilagava ovunque. I prezzi delle case salivano vertiginosamente giorno dopo giorno, al Festival di Sanremo un glabro Caparezza debuttava con lo pseudonimo di Michi Mix, cantando "E la notte se ne va". Siena era ricca e felice e noi crescevamo lo stesso anche senza I-phone. E poi avevamo già tutto, anche se non lo sapevamo ancora.
Verso la fine del decennio, con la prima fidanzatina dell’epoca, passavamo i pomeriggi a telefonarci (oramai la fobia era definitivamente dimenticata). Ma non ci parlavamo. Chi chiamava attendeva che l’altro rispondesse: "Pronto" – che bella sensazione quella di rispondere ignorando chi ci fosse dall’altra parte – e una volta riconosciuta la voce, in silenzio, schiacciava il tasto play dello stereo, lasciando che a parlare fosse una canzone. Seppur primordiale, erano le nostre piccole note vocali di what’s app. Gli sms li scrivevamo a mano e li consegnavamo ai compagni incaricati di recapitarli. Tempo cinque minuti i cazzi tuoi li conosceva tutta la scuola, eccetto la diretta interessata. Senza Instagram, le didascalie delle foto le appuntavamo a penna dietro e non di fianco. Nessuno poteva hackerare la nostra vita. Al massimo potevano rubarci il diario. Che già a novembre era gonfio come il vocabolario di Italiano. Ma tanto nel mio c’erano soltanto offese contro i Livornesi e testi rap scritti a mano stoppando la cassetta ogni tre secondi. L’autoscatto della macchina fotografica era una funzione proibitiva per macchine di lusso, accessibili soltanto a chi aveva il babbo che lavorava al Monte. Senza facebook eravamo costretti a lasciare i post nella porta interna del bagno di scuola. Se nei cessi degli autogrill c’erano i numeri di cellulare dei primi trans, in quello della mia scuola c’era la scritta “Ultras Fighters 1979” e la frase "La strada è puttana, scopa ma non si fa baciare” e sotto una serie infinita di commenti... Nello scriverla il prof. di Italiano mi beccò con le mani in pasta, ma invece di punirmi si meravigliò dell’originalità della metafora. Quando qualche mese più tardi scoprì che in realtà non era mia ma degli Articolo 31, me le fece pulire. Consegnandomi suo malgrado una lavagna intonsa da riempire con nuove scritte. Chissà, forse non gradiva il genere, o magari era di Prato. Nel frattempo le strade del Siena e del Prato stavano per dividersi. Per sempre, sperammo qualche anno più tardi in una sera di maggio, festeggiando la Serie B in Piazza del Campo. Per appena quindici meravigliosi anni, scoprimmo amaramente svegliandosi di soprassalto dopo essere caduti dal letto alla fine del sogno.

Siena – Prato: ovvia, non vi dico più niente. Che poi vi arrabbiate e ci mandate in culo. Sarebbe giunta l’ora di darsi una svegliata. Se non lo volete fare per noi o per il bene della Robur, fatelo almeno per la vostra carriera. Che di questo passo – se continuate così - si prospetta corta, triste e inutile.

Tutti uniti insieme avanzeremo.


Mirko

11 commenti:

  1. ma se Jawo segna e primo si gnuda, rischia una querela?

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    1. Ma se Jawo si gnudo e Primo segna, rischia una querela?

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    2. se Jawo si gnuda viene giù lo stadio:)

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  2. I vecchi telefoni con i numeri che giravano,che se ne sbagliavi uno (chissà perchè) era sempre verso la fine e toccava ricominciare da capo. Erano bei tempi anche quando i cellulari non mostravano l'identificativo chiamante,se non sbaglio rovinarono tutto verso il 2000. Certo che sapere che anche qualcun'altro faceva questa stronzata di chiamarsi e far partire le canzoni registrate in radio (o in diretta, nei casi più audaci e fortunati)senza parlare.. mi fa uno strano effetto,tipo aver scoperto che babbo natale non esiste(ma di questo non ho ancora la certezza,diciamo che è altamente probabile,ma nutro ancora delle speranze). Se ricordassi quel numero ora credo farei partire quel demente di Jovanotti"Ma quando un giorno sarai lontana.."..Già.E mi manderebbe in culo visto che sono le tre di notte.E non solo per quello. Certo che stasera la luna irradia una luce incredibile.

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    1. Non era solo un stronzata... Era un modo carino per condividere una piccola emozione e ricordare all'altra (o all'altro) che la (lo) stavi pensando. Era un po' come prenderle la mano e camminarle a fianco per qualche minuto. Ed in tutto ciò, il cuore batteva sempre a mille. Poi arrivava la bolletta del telefono e qualcun altro s'arrabbiava di brutto...
      Mirko

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    2. Conosco benissimo la tipa in questione e vi devo confessare molto a malincuore che,quando stufa di canzoncine ascoltate al telefono non si trovava con uno di voi due "comproprietari",soleva appartarsi nei pressi di Belcaro con El Cinico il quale,stile Aceto nell'Oca su Baiardo,la faceva sua "more ferarum"con gemiti et ansimi(ANSIMIuller,quello dell'Inter)udibili fino al Pian delle Fornaci.

      Spesso la vita,quando uno meno se lo aspetta,può farti apprendere verità alquanto dolorose...

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    3. Ovvia, io non mi volevo inserire per non distruggere i vostri sogni. Sappiate che la tipa la pipava Jawo, per cui...

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  3. Come premere play e metterle una cuffia all'orecchio in silenzio sul bordo di una piscina,si hai ragione,non era solo una stronzata ma per me è un termine affettuoso! E' solo che credevo di aver l'esclusiva e mi hai spezzato l'illusione, l'ho detto era una sensazione strana. Ma tanto di certo non si parlava della stessa citta! O forse si? Via, non lo voglio sapere!

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    1. Eccoci, o stai vedere che siamo stati tutti e due con la stessa. Speriamo almeno in tempi diversi... Altrimenti, mi chiedo, il cornuto è solo quello che è arrivato per primo? Boh, ma tanto mi sa che tocca a me(naturalmente sto scherzando, e poi è soltanto lunedì!).
      Mirko (parecchio assonato)!!

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  4. Siiiiii Francesco Gabbani Siiiiii
    E siccome so contento, a sto giro i 5 li do addirittura prima della partita.
    Le gnudità di Primo
    Il ricorso pittoresco
    Il billo di Jawo
    Il Nerone del Pechino
    Virginia Raggi

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    1. Si ok, ma Cazziglia e chi ce l'ha portato va riproposto a nastro...

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