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lunedì 4 gennaio 2016

LA FOLOSA COMMEDIA. Inferno, Canto XIII. I suicidi

"Canto XIII, ove tratta de l’esenzia del secondo girone ch’è nel settimo circulo, dove punisce coloro ch’ebbero contra sé medesimi violenta mano, ovvero non uccidendo sé ma guastando i loro beni".

(Anonimo commentatore dantesco del XIV° secolo)

Io e Lapo ci incamminammo per una selva orrenda, ma orrenda forte, fra alberi di fogliame di colore oscuro (un orribile magenta) e rami contorti come i discorsi di un certo sindaco; al posto dei frutti nascevano spine velenosissime, qua chiamate "Columbu Columbus". Nemmeno il laghetto dei cigni alla Lizza era mai stato così putrido. Fra le frasche nidificavano le Arpie-dei-giornali, che avevano ali grandi quanto il sorriso di Cletus, noto artistone, e zampe artigliate. Lapo mi spiegò che eravamo nel secondo girone del settimo cerchio e mi invitò ad ascoltare bene il bosco, perché avrei sentito cose incredibbbili.
Sentii difatti dei lamenti forti, come dello spettatore costretto a guardare i programmi della moglie di Costanzo, ma non capivo chi mai fosse a gemere. La mia guida allora mi invitò a spezzare un ramo di un albero, suggerendomi di pensare di tranciare un braccino di qualche foloso cittadino; io allora eseguii con malcelata cattiveria. Il tronco si lamentò: "Oh birbone, che fai? Mi spezzi così a tradimento? Ma che ti ho fatto?". Lapo chiarì al tronco che era colpa sua e chiese di raccontare la storia.
"Io sono il segretario personale di Beppe Beppe. Ne conoscevo i segreti, essendo il suo primo collaboratore. Ben presto tutti i folosi divennero gelosi e tanto invidiosi da congiurare contro di me, convinsero Beppe Beppe che fossi un traditore. Ma io non lo sono mai stato, ero un'anima sensibile, incastrato in un gioco più grande di me. La storia ufficiale narra che, per sfuggire all'ira del sovrano e per la vergogna della mia posizione, mi uccisi. Ma io ti prego di dire che non mi sono suicidato e che qualcosa di molto più oscuro successe, quella maledetta sera in quel maledetto ufficio".
Lapo pretendeva che gli rivolgessi altre domande,  ma capì che ero troppo scosso per farlo; invitò allora l'anima del segretario a spiegare come i suicidi si trasformassero in piante. Rispose la povera anima che, quando il giudice degli inferi mandava questi nel cerchio nel punto indicato, qui germogliava una pianta, le cui foglie venivano mangiate dalle Arpie-dei-giornali, che in tal modo davano ulteriori grandi sofferenze. Il suo destino era segnato, poiché il giorno del giudizio universale il dannato avrebbe potuto solo riprendere il proprio corpo per appenderlo all'albero dove l'anima era imprigionata, poiché nessuno sarebbe mai stato in grado di riprendere ciò che avesse tolto a se stesso con violenza. All'inverso di Foloso City, dove tutti si tengono ciò che hanno tolto ad altri.
Mentre stavamo ascoltando queste storie, ad un tratto nel bosco due uomini ignudi e graffiati ci passarono accanto. Il primo, in bici elettrica, schizzò via velocissimo; il secondo, bolso e con il culo da sposa, rimase impigliato in un arbusto e qui dilaniato da due cagne nere.
Al che mi avvicinai e tentai di capire chi mai fosse. "Dai, che mi conosci. Son D'Agostino, il ristoratore atleta di Cristo, che ha rubato milioni di euro di stipendio e che per questo, stretto dal rimorso, mi sono suicidato da poco".
Un senso di giustizia allora mi pervase. Detti una carezza alla cagna e me ne andai.

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