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mercoledì 11 novembre 2015

Succedeva a Siena... (seconda parte)

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Ma i Senesi non erano solo da bosco, erano anche da riviera…pertanto sapevano usare la diplomazia. 

Per esempio, quando la pressione sociale e fiscale imposta dal nuovo luogotenente imperiale, don Diego Hurtado de Mendoza, si fece davvero insopportabile e la costruzione di una fortezza spagnola stabile (non so se la conosci, su un colle chiamato di “San Prospero”, dove ora sorge uno stadio…) rappresentava un pericoloso presidio, il Governo senese tentò allora di dissuadere l’imperatore: l’ambasciatore Girolamo Tolomei ebbe piena autorità di concedere a Carlo V la nomina del Capitano di Giustizia e di far autorizzare il disarmo controllato della popolazione. Il 10 settembre 1550, dopo una lunga attesa, l’imperatore Carlo V ricevette l’ambasciatore Tolomei e, dopo avergli dato udienza, rigettò le concessioni offerte dal diplomatico senese. Il Governo tentò nuovamente una mediazione, componendo un documento consegnato al nuovo ambasciatore designato, Orlando Malavolti, il quale partì alla volta della corte carolina. Il testo recitava: «La città spera e confida che S.M. non vorrà per risanarla usare sì aspra medicina che gli consumi il corpo e consumi la vita come fuori di ogni dubbio sarebbe la determinazione del castello, quando la bontà vostra consentisse di effettuarne l’esecuzione». Carlo V rispose: «Io che rappresento il medico non trovo in questo caso altro rimedio al vostro male che fare un castello per introdurre e mantenere tra di voi la pace, la giustizia e di conseguenza la libertà; se si potesse trovare un altro mezzo che portasse al medesimo effetto, il che io non credo, avrò piacere che mi sia portato». 
L’effimero spiraglio aperto nell’animo senese da quest’ultima dichiarazione accese ulteriori speranze: altri ambasciatori partirono fiduciosi per Spagna. La costruzione della fortezza proseguiva a ritmo crescente: era stata iniziata l’11 novembre 1550, ed il Mendoza, ormai a corto di materiale, ordinò di demolire alcune torri cittadine per reperire il materiale da costruzione. Nel febbraio 1551 Paolo Gherardi, Achille Pannocchieschi, Giulio Vieri e Lattanzio Landi furono ricevuti dall’imperatore. Ma quello stesso imperatore che anni prima era stato entusiasticamente accolto dalla popolazione della repubblica senese, adesso era più che mai deciso a togliere ad essi ogni libertà. 
In città, saputo l’esito dell’ambasceria, fu organizzata l’insurrezione. Mendoza intuì la cosa e strinse le redini avviando un periodo di feroce repressione: l’incarcerazione di Giovanni Battista Ninni e l’uccisione dei fratelli Tolomei sono alcuni degli esempi più clamorosi. Alcune consorterie cittadine pensavano già alla rivolta, ma per poterla efficacemente portare a termine era necessario l’aiuto dell’unica potenza che fosse veramente in grado d’opporsi alla Spagna, la Francia. 
Il Governo senese decise un incontro con gli ambasciatori francesi; le trattative furono segrete e nel giugno 1552, il cardinal di Tournon, in accordo con l’ambasciatore plenipotenziario francese, Odet De Selve, inviò un proprio generale che avrebbe dovuto arruolare truppe mercenarie destinate ad appoggiare dall’esterno l’insurrezione cittadina. Il 7 luglio 1552, in una riunione presieduta da Enea Piccolomini, capo dei congiurati, furono organizzati i dettagli dell’insurrezione e il 15 luglio si tenne a Chioggia un incontro tra i rappresentanti francesi e senesi, che dopo diverse discussioni, fissarono la data del futuro moto rivoluzionario al 26 luglio. Poco dopo sarebbe arrivato l’assenso di Enrico II di Francia. 
In Siena intanto la condizione finanziaria di don Diego de Mendoza era esposta nei confronti di alcuni banchieri romani perché la cittadinanza senese, attraverso una mobilitazione generale, non prestava né manodopera né tantomeno aiuti finanziari per il proseguimento della fortezza (questa fortezza vi è rimasta sul gozzo per secoli…). All’improvviso giunse la notizia falsa che i Francesi avrebbero attaccato Napoli con l’aiuto del Turco, ed immediatamente 300 Spagnoli partivano da Siena diretti verso il Regno di Napoli, lasciando così non più di 500 soldati di presidio in città. La notizia dell’attacco francese dette al Governo senese la possibilità di reclutare ogni uomo valido che si trovasse in città o nello stato, con la scusa di preservare il litorale dall’attacco dei turchi. Stanziati a Buonconvento, i soldati aspettarono il momento dell’azione. 
I Francesi avevano spedito 10000 scudi ai congiurati senesi per arruolare mercenari, ma il reclutamento fu terminato con sensibile ritardo. In contemporanea a Siena, le persone maggiormente indifese vennero fatte evacuare con il pretesto dei lavori agricoli da svolgere nel contado. I Francesi tardarono ad arrivare e cominciarono a trapelare informazioni sulla congiura: la sera del 24 luglio 1552 qualcuno cercò di avvertire il Mendoza della prossima rivolta, il biglietto anonimo poneva come data dell’insurrezione il 30 luglio. Ma Giulio Salvi, il 25 luglio, si recò dal comandante della guarnigione spagnola per confessare i dettagli della vicina rivolta. Dopo poco vennero informati Cosimo I a Firenze e don Diego a Roma. 
Dopo poco la guerra cominciò ufficialmente e si trattò di un percorso lungo e cruento, fatto di bombardamenti, rioni cittadini in rivolta, rocche distrutte, campi arsi, mediazioni diplomatiche più o meno efficaci che dimostrano un attaccamento unico alla “cosa pubblica”. 
Ed in questa Guerra che sfociò nella sconfitta senese e che vide contrapporsi negli Carlo V, gli Alba e i Fiorentini contro Siena sostenuta dalla Francia (a sua volta sostenuta dai Turchi), ambasciatori straordinari e generali fierissimi (il Marignano vs. Piero Strozzi, nemmeno in Rocky IV) i senesi furono valorosi e mai proni, mai servi, pronti a ribellarsi ad ogni sopruso finché, per il bene della popolazione superstite, non era il caso di accettare accordi diplomatici e rese onorevoli, come quella conceduta dal figlio del vicerè di Napoli, don Garcia de Toledo (del clan Alba), a tutti i sopravvissuti della guarnigione senese di Monticchiello per il valore dimostrato in battaglia. 
E quando la resa fu l’unica alternativa, nel 1555, in molti, migliaia, preferirono l’esilio alla sudditanza, riparando nel forte che più aveva resistito agli attacchi nemici: nasceva ufficialmente la “Repubblica di Siena in Montalcino” alla quale si federarono tutte le comunità della Val d’Orcia. Questo esperimento di ashram belligerante continuò fino al 1559, quando tutto il territorio senese fu annesso, per restituire i prestiti finanziari che Carlo V aveva ottenuto per far galleggiare quella voragine chiamata Impero, a Cosimo de’ Medici che inaugurò così il nuovo corso della Toscana, di lì a poco elevata a Granducato, con Siena divenuta di fatto la sua seconda città per importanza e prestigio. Ma questa, se vorrai, è un’altra storia da raccontare… 
Ma erano dei super uomini quelli che combatterono per difendere l’indipendenza del proprio stato? Non proprio. Sono stati uomini straordinari perché erano persone comuni. Omini degli orti al servizio del bene comune e di Siena, non del Partito. Ispirarsi alle loro gesta ed ai loro ideali sarebbe senz’altro un buon terreno fertile da cui far germogliare un nuovo senso civico senese. 
Comunque, te che puoi, Al-Mutanabbi, glielo dici che questo spirito di guerra, affari e diplomazia è antropologicamente insito nell’animo dei tuoi concittadini e che quando li senti dire: “Sì, ma che dobbiamo fare?” bisognerebbe solo si rileggessero come si mossero i loro antenati quando si trovarono dinanzi a difficoltà insormontabili?
 

Perdona la prolissità di questo tuo vecchio lettore.


Con simpatia,

Esteban Vihaio




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