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giovedì 26 marzo 2015

Reliquia e ombra della già morta Repubblica

Persa definitivamente l’indipendenza nel 1559, già il 1 febbraio 1561 Cosimo I de’ Medici, che tre mesi prima aveva fatto il suo solenne, quanto contrastato ingresso in città, emanò la “Reformatione del governo della città e Stato di Siena”, ossia la nuova costituzione della Siena ormai infeudata nel Granducato di Toscana. 



Un testo ritenuto dai più di ottima fattura (le rare e marginali integrazioni che subì in due secoli, fino alla dominazione lorenese, ne sono sicura conferma) e tutto sommato non troppo penalizzante per gli sconfitti. 
L’idea guida della riforma fu quella di concedere una significativa autonomia ai Senesi, escludendoli, chiaramente, dalla direzione politico-militare, ma consentendo loro di conservare gli organi repubblicani con il proprio nome e parte delle competenze. Fu preservato, così, il tradizionale patrimonio normativo, rimasero in vita la Balia, il Concistoro o il Consiglio Generale e si permise che le tradizionali cariche repubblicane rimanessero appannaggio di “gentiluomini sanesi” (p.e. il Rettore del Santa Maria della Scala o quello dell'Opera del Duomo, seppur nominato dal Granduca su proposta della Balia). 
Il provvedimento, com’è ovvio, intendeva soprattutto acquisire consenso presso l’elite dirigenziale locale ma, di fatto, prevedeva anche un’autolimitazione non indifferente del potere granducale su Siena, che dunque riuscì a mantenere un pur minimo margine di autonomia, e non solo di carattere formale. Cosimo, insomma, comprese di avere di fronte cittadini orgogliosi, attaccati alla propria libertà e alla patria, portatori di un passato ancora fresco quanto insigne, e decise di approcciarsi ad essi con prudenza, lungimiranza e rispetto. 
Mario Ascheri ha autorevolmente affermato che “nonostante i Medici, i Senesi avevano trovato il modo di continuare a coltivare molti aspetti della loro civiltà repubblicana”, e anzi fu con il governo centrale mediceo che Siena “conservò una larghissima autonomia, mai più goduta in seguito”.
Appena una ventina di anni dopo Andrea Gussoni, ambasciatore veneziano a Firenze presso il Granduca di Toscana, nella sua corposa relazione conclusiva, redatta nel 1576, definì le antiche magistrature salvate dai Senesi “reliquia e ombra della già morta Republica”. Giudizio forse un po' frettoloso, secondo il quale i Senesi erano ormai completamente alla mercé dei Medici, e che non teneva conto di un aspetto viceversa fondamentale. Le libertà comunali faticosamente contrattate sin dal momento della capitolazione, e alla fine parzialmente concesse, erano state salvaguardate dai vinti con forza e devozione, ma al tempo stesso erano state rispettate con accortezza dai conquistatori. 
Certo i pochi Senesi rimasti in città, sopravvissuti dopo il lunghissimo e terribile assedio del 1554-55, e che non avevano scelto né di riparare a Montalcino né la via dell'esilio, avevano primariamente a cuore la tutela dei propri beni, in un momento di crisi profonda, che provocò inevitabile declino economico e demografico. 
Soprattutto le famiglie aristocratiche, pur costituendo ancora il ceto dirigente cittadino, abbandonarono quasi del tutto lo spirito imprenditoriale e mercantile del passato, trasformandosi in un ozioso ceto di proprietari terrieri appagato dalle rendite fondiarie, peraltro anch’esse in fase di contrazione. Giovanni Botero, nelle “Relazioni universali” (1591-1596), affermò che Siena aveva perduto, insieme alla libertà, “assaissimo dell’antica frequenza e splendore”, descrivendo i suoi abitanti “parchi e ritirati… cupi e pensosi delle cose loro… contenti delle loro entrate e de’ frutti di villa”. 
Ciononostante, l’adagiarsi in precari privilegi di casta non impedì all’elite dirigente senese di reagire all’eventualità di una decadenza troppo marcata della città; si cercò, comunque, di tracciare la strada lungo cui incamminare la “dolce patria in tempi di cattività”, dando un seguito, un futuro, a ciò che restava della sfiancata collettività urbana. E proprio quelle reliquie e ombre “della già morta Republica” diventarono il fondamento di un mito in cui finirono per riconoscersi la gran parte dei cittadini senesi, ormai sudditi del Granduca, ma almeno pronti a sfruttare le scarse risorse rimaste. 
Tra queste vanno annoverate anche le Contrade, già esistenti a metà Cinquecento, le quali erano sì eredi delle “cellule sociali più o meno autonome tipiche dell'urbanesimo medievale”, ma che specie dopo la caduta della Repubblica cominciarono ad assumere funzioni che travalicarono il mero impegno ludico, trasformandosi in rifugio dello spirito partecipativo, e al tempo stesso fazioso, dei Senesi. Spirito che non potendo più dispiegarsi con pienezza nel governo della città, trovò uno sbocco naturale nella Contrada, facendo così sopravvivere, attraverso di esse, la cultura partecipativa e pluralistica che aveva segnato il Medioevo dei Comuni. Specie a Siena, dove tendenzialmente si era ricercata un'ampia partecipazione politica fra i vari gruppi al potere, “governi larghi” alla lunga pagati a caro prezzo, soprattutto sotto il profilo economico e diplomatico, ma che favorirono ed esaltarono la passione civica dei Senesi, in seguito manifestatasi anche nelle Contrade. 
E sempre attraverso di esse vennero riproposti, mediante il rito della festa, comportamenti collettivi antichi, intrisi di agonismi e rivalità, fazioni e lotta. Tradizionali, ma anche inedite, esperienze ludiche, riproposizione di antagonismi e di forme associative di un passato lontano che attecchirono rapidamente perché trovarono terreno fertile in una città ormai avviata, come detto, verso una fase di immobilismo economico e conservazione appagata dello status quo, fattori che quantomeno hanno saputo arginare nei secoli gli effetti di eventi traumatici per l’assetto sociale. 
Giochi, anche nuovi come il Palio alla tonda, che continuarono a celebrarsi nel Campo, ma di questo parleremo nel prossimo appuntamento.






Roberto Cresti


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