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venerdì 2 gennaio 2015

Gente vana (parte II)


Nel XIII° Canto del Purgatorio Dante non si limita a schernire i Senesi per l'impresa di Talamone, ma infierisce anche riguardo ad un altro fatto di cronaca di cui si dibatteva in quegli anni nella nostra città, la ricerca della cosiddetta “acqua Diana”.



La quale, alla fine del Duecento, nonostante il susseguirsi dei tentativi e i costi sempre più lievitanti, non aveva dato frutti concreti, tanto da indurre l'Alighieri a paragonare il sogno di crescita economica derivante dall'acquisto del porto maremmano alla “vana” speranza riposta sul ritrovamento del leggendario fiume sotterraneo, che secondo la tradizione da Castelvecchio sarebbe scorso a valle confluendo nel torrente Tressa.
Diciamolo forte e chiaro: la canzonatura dantesca è, invero, assai ingenerosa, considerato quanto i Senesi hanno sempre dovuto tribolare con l'enorme e drammatico problema della penuria d'acqua. La cui causa principale risiede proprio nella morfologia e nella natura geologica del territorio urbano, costituito da argille, argille sabbiose, arenaria e conglomerati; quindi fondamentalmente arido, con l'acqua piovana che dopo essersi infiltrata nelle sabbie permeabili emerge soltanto nelle valli o in piccole sorgenti localizzate a contatto fra le sabbie e le argille.
Hanno sempre dovuto tribolare, si è detto, affermazione da intendere alla lettera, perché se è vero che il problema deflagrò nel Due-Trecento, quando la città registrò un'impennata demografica notevolissima, abbiamo la prova che anche in età romana ci si dovette fare i conti.
Una delle rarissime notizie di questa epoca, infatti, rimanda addirittura all'anno 394 d. C., quando gli abitanti della “Sena Iulia”, in segno di eterna gratitudine, donarono una statua ad un ignoto benefattore romano il quale, a propria cura e spese, aveva portato l'acqua in molti luoghi della città, fornendo ulteriore decoro alla stessa e facendo in modo che non mancasse più per gli usi necessari alla comunità. Così, almeno, recita l'iscrizione posta alla base della statua, a testimonianza di come l'approvvigionamento idrico fosse già allora “un problema” con cui i Senesi erano costretti a convivere.
L’imprevedibile espansione medievale mise dunque a nudo l’insufficienza della portata d'acqua assicurata dall’ormai obsoleta rete degli acquedotti sotterranei, i ben noti “bottini”, costringendo i Senesi a prolungarla ben oltre le mura urbane e rendendo la sua ricerca una sorta d’ossessione.
Ed è in questa congiuntura che nasce il mito della Diana, probabilmente perché l'acqua proveniente da queste antichissime condutture, quasi sempre di stillicidio (ma di questo i Senesi del Medioevo non dovevano avere piena consapevolezza), faceva pensare, e illudeva, che il sottosuolo urbano fosse ricco del prezioso liquido e magari attraversato da un vero e proprio fiume di copiosa portata. In realtà si trattava “solo” del vecchio acquedotto romano (se non addirittura etrusco) che in passato aveva dissetato i loro antenati, e che nell’immaginario collettivo si “trasformò” in un fiume sotterraneo; ipotesi che potrebbe spiegarne il nome, legato alla tradizione pagana per cui i corsi d’acqua, i laghi e le fontane venivano spesso intitolate a divinità agresti o boscherecce.
Iniziò così la caccia alla Diana, ricca di leggende ma anche di episodi storicamente certi, dai quali si evince come alla fine del Duecento la ricerca fosse ormai divenuta spasmodica. Nel 1295 la questione approdò perfino in Consiglio Generale, ove fu discussa l'opportunità di rifinanziarla, con esito pressoché “bulgaro”, dato che i favorevoli vinsero per 169 a 38.
Si cominciò a trivellare dappertutto, anche nei luoghi dove per logica l'acqua non poteva esserci o lontanissimi dalla zona di Castelvecchio, tra cui nei pressi del monastero femminile del poggio di Vico, fuori porta Camollia, dove si scavò un pozzo di oltre 30 braccia gettando la terra rimossa dentro l'edificio sacro. Mossa improvvida, perché la chiesa crollò, rovinando irreparabilmente una tavola raffigurante la Madonna, e il Comune dovette risarcire le suore di una somma pari a 25 lire; temo che sia stato proprio questo episodio, effettivamente un po' comico, a spingere Dante ad irridere i Senesi per l'affannosa quanto “vana” ricerca dell'acqua Diana.
Ma in realtà il loro comportamento era tutt'altro che irrazionale, anzi era in perfetta sintonia con il modo di ragionare e la cultura dell'epoca: se l'acqua di Siena affiorava dal sottosuolo, nulla vietava che potesse scorrervi un fiume o perlomeno esserci una ricca sorgente; se la tradizione orale aveva tramandato che in età romana l'acqua sotterranea esisteva, non si poteva dubitare di ciò, bisognava solo impegnarsi al massimo per rintracciarla.
Inoltre non dobbiamo pensare che i Senesi di allora fossero così sprovveduti da limitarsi a cercare un favoloso fiume sotterraneo mai individuato. In contemporanea andava celermente avanti l'escavazione del bottino “maestro” di Fontebranda, di lì a qualche anno sarebbe partito il grandioso progetto di “portare” l'acqua nel Campo (Fontegaia fu “inaugurata” nel 1343, ma erano dieci anni che si scavava il bottino, arrivando diversi chilometri oltre le mura cittadine), e soprattutto sin dal 1268 si pensava all’eventualità di derivare addirittura l’acqua del fiume Merse per condurla in città.
Un'altra idea ambiziosa e assai audace per l’epoca, su cui il Consiglio Generale espresse il proprio voto favorevole, dietro la spinta decisiva di Provenzano Salvani, “dominus” cittadino di quegli anni post Montaperti. Il progetto, in realtà, non ebbe mai esecuzione, forse perché troppo ardito, magari eccessivamente costoso, certamente perché appena un anno dopo mutò il quadro politico cittadino.
Comunque sia andata, va rimarcato che di fronte ad un problema così serio e grave come la scarsità di risorse idriche (risolto di fatto solo ai primi del Novecento con l'acquedotto del Vivo, altra iniziativa coraggiosissima), idee e progetti non mancarono e di certo i Senesi non si “persero” soltanto dietro la sfuggente Diana.
E poi, siamo sicuri che Dante sia stato così impietoso e cattivo con i Senesi della sua epoca? Se si pensa agli epiteti riservati ai suoi concittadini, ma anche a Lucca (“barattieri”), Genova (“pien d'ogni magagna”), Pisa (“vituperio” d'Italia), Pistoia (“bestiali”) e Bologna (“avari”), la “vanità” senese sembra quasi un complimento. E allora ha ragione l'illustre dantista Natalino Sapegno, quando a commento del XXIX Canto dell'Inferno, scrive: “il tono di questa polemica, in cui concorrono tutti gli interlocutori, si mantiene su un piano tutto artistico (quasi di frizzante rappresentazione mimata e dialogata dei pettegolezzi municipali), senza nulla dell'amarezza dolorosa, sarcastica e appassionata, con cui altrove il poeta irrompe a castigare i difetti e le colpe di questa o quella terra d'Italia”.
Insomma, forse anche per Dante i Senesi non erano poi così vani! 


Roberto Cresti



2 commenti:

  1. occorre ,a mio modesto parere, specificare che l' Alighieri doveva tenersi buoni i nostri avi senesi in quanto lui stesso vedeva Siena come un "refugio" (e infatti vi abitera' per anni dopo il suo esilio) e che quindi non potesse calcare troppo la mano nei giudizi verso un popolo di cui avrebbe potuto avere bisogno in ogni momento e che (se non sbaglio) in quel periodo teneva un governo filoguelfo (i Nove, fino a dopo la peste nera) e alleato con Firenze.
    Inoltre, favorita dalle credenze medievali,Siena non era da considerarsi stupida per la ricerca di un fiume sotterraneo, pratica in uso in quel periodo storico in molte citta' collinari, bensi' per i mancati risultati della costosissima ricerca! nessuno,nemmeno il poeta divino,avrebbe osato a quel tempo dire che un grande fiume sotto terra potesse esistere o meno (gli stessi medici curavano molte malattie con ..... L'astrologia!!!!)
    Bozzon

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  2. Bellissimo documento, grazie ragazzi; meritoria opera di divulgazione.

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