"Carthago Delenda Est", fu il grido di battaglia che Marco Porcio Catone, detto il Censore, urlò ininterrottamente per molti anni al termine dei suoi discorsi in Senato, intorno al 150 a.C. Catone pensava difatti che non fosse possibile, per Roma, venire a patti con il nemico cartaginese, considerato l'antagonista per il controllo del Mediterraneo. L'espressione diventò presto uno slogan che portò alla terza guerra punica ed alla distruzione completa di Cartagine, sulle cui rovine fu sparso del sale, affinché non risorgesse mai più. Da quel momento, "Delenda Carthago" assunse un significato proverbiale, per definire una intenzione di perseguire un obiettivo strategico ancor prima di una minaccia veritiera; in pratica, possiamo dire che fu proprio una pietra miliare del concetto di guerra preventiva, tristemente famosa fino ai nostri giorni.
Bene, questa introduzione serve a meglio comprendere il testo ed il contesto in cui esso si sviluppa. Testo diviso in due parti, una in lingua italiana e l'altra in lingua latina. Il testo italiano è scritto dal prof. Angelo Arioli, docente di Lingua e Letteratura Araba a Roma, che il sottoscritto ha al tempo conosciuto (e con il quale ha disquisito di Franco). Si narra della volontà di espansione di Roma, che va a sondare le coste africane per nuove terre da conquistare, per poi goderne delle ricchezze e delle bellezze. Con una voluttuosità finemente descritta, le truppe romane bevono vini esotici, mangiano carni speziate, divertendosi nelle arene, stravolte, a celebrare riti di sangue. Segue quindi la parte di testo in latino, ripresa da un passo di Sestio Properzio. Qui si punta l'attenzione esclusivamente sulla causa di tanto affanno, il denaro, a causa del quale si fanno guerre, si depreda, si lotta, si muore prima del tempo. Il tema non è affatto nuovo nella discografia battiatesca, anzi sarà ripreso con grande vigore negli ultimi album della sua carriera. La cupidigia umana in questa canzone è totalizzante, non trovando contrappunto in altra parte di testo che possa dare una soluzione alternativa: la condanna è netta, senza alcuno scampo.
Musicalmente, la canzone si snoda come una litania nostalgica e infingarda, con intrecci di archi e di oboe che designano la inesorabile lentezza della conquista romana (pare quasi di vedere le truppe armate che camminano sulle dune di deserto) e del godimento fine a se stesso del post distruzione. L'effetto che si ottiene all'ascolto è quello di una estrema rilassatezza mista ad una tristezza per la assurdità del messaggio. Intuitivo difatti è il collegamento fra Roma e l'Occidente contemporaneo, entrambe esportatori di "democrazia", devastazione e divertissement, fra vizio e lusso in difesa di una non meglio identificata superiore civiltà.
Per terre incognite vanno le nostre legioni
A fondare colonie a immagine di Roma
Delenda Carthago
A fondare colonie a immagine di Roma
Delenda Carthago
Con le dita colorate di henna su patrizi triclini
Si gustano carni speziate d'aromi d'Oriente
Si gustano carni speziate d'aromi d'Oriente
In calici finemente screziati frusciano i vini
Le rose, il miele
Le rose, il miele
Nei circhi e negli stadi s'ammassano turbe stravolte
A celebrare riti di sangue
A celebrare riti di sangue
Conferendis pecuniis
Ergo sollicitae tu causa, pecunia, vitae
Per te immaturum mortis adimus iter
Tu vitiis hominum crudelia pabula praebes
Semina curarum de capite orta tuo
Ergo sollicitae tu causa, pecunia, vitae
Per te immaturum mortis adimus iter
Tu vitiis hominum crudelia pabula praebes
Semina curarum de capite orta tuo
Tu causa, pecunia, vitae
Per te immaturum mortis adimus iter
Tu vitiis hominum
Per te immaturum mortis adimus iter
Tu vitiis hominum
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