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martedì 1 dicembre 2020

Il vento di Aires

Immerso nel tepore ventoso di una domenica novembrina, mi soffermo ad  immaginare che forse anche a Buenos Aires ad un certo punto della mattina si alzi a un vento vivace, che spirando dal Rio della Plata verso terra porti lungo le vie ed in mezzo alle piazze contornate da palazzi maestosamente decadenti, retaggio di uno splendore ormai dimenticato, profumi antichi e accattivanti, che sanno di vite sconosciute e continenti lontani. 


Quel vento, carico di umide novità, a volte belle a volte brutte a seconda di come le si guardi, potrà essere sollievo o frustrazione, allietando la giornata del turista oppure scrostando la facciata della casa del bonaerense, che, fermo in mezzo alle folate, alzerà le mani al cielo gridando "Madre de Dios", in attesa di un qualcosa che possa cambiare per sempre la sua esistenza. E con lo sguardo fisso sulla linea dell’orizzonte dove il cielo azzurro diventa un tutt’uno con un mare metà fiume e metà oceano e assieme alla spuma bianca delle onde tinge il mondo con i colori dell’Argentina, aspetta invano un segno del destino. Ma forse è proprio questo il senso della vita di tutti noi, perché essa può essere bella e brutta nello stesso identico momento, a seconda di come la si guardi. 

E allora lasciandomi rapire da quel vento, mi addentro nelle budella della città, troppo costipata tra futuro e malinconia. E da qualche parte, tra un passo di tango e una grigliata di carne, magari proprio dentro una taverna malfamata del barrio più antico, un tempo frequentata da pirati, donnacce e indigeni, fuoriesce dalle casse di una vecchia radio analogica una musica coinvolgente, che fa sottofondo alle parole di Rodrigo Bueno con le quali canta la vita di Maradona, artista e genio, a suo modo, del secolo scorso, la cui vita al pari del vento di Buenos Aires può essere sollievo o frustrazione, a seconda di come la si guardi. Il titolo della canzone credo sia "La Mano de Dios" e dopo averla ascoltata due o tre volte, sono andato anche a cercarmi il testo. Ha un ritmo che sa di terra lontana: la fine del mondo, la chiamò Papa Francesco nel giorno del suo insediamento. Dice tutto e nulla, come molte storie sudamericane, dove la realtà e il mito camminano fianco a fianco e talvolta si incontrano per darsi un bacio e concepire qualcosa in grado di incastonarsi nel folklore locale e col tempo diventare parte integrante di quella tradizione popolana, aggrappata ai muri come una pianta di cappero e pertanto in grado di resistere al progresso e al modernismo dilagante. Gli Argentini sono un popolo orgoglioso, convinto che Dio stia dalla loro parte, con la tendenza ad ingigantire sempre tutto. 

Questa canzone però può essere un ottimo spunto  per riflettere su di  un uomo che oggettivamente è stato molto di più che un semplice campione. Senza pennelli, scalpello, penna o violino, ha usato l’unico strumento a sua disposizione - un pallone di cuoio bianco e nero - per lasciare un segno tangibile del suo passaggio terrestre, vivendo la sua vita senza paura del domani o del giudizio degli altri, in un turbinio di alti, tanti, e bassi, troppi. La mia generazione, ancora oggi, quando giochicchia a calcio, per prendere in giro l’avversario che tenta di fare una cosa difficile chiede:" Oh chi sei, Maradona?", come a voler certificare la grandezza di un atleta, il cui nome, conosciuto in tutti gli angoli del mondo, come la Coca Cola o la cocaina, pare aspetti soltanto il momento buono per trasformarsi in aggettivo e consegnare alle future generazione una nomenclatura precisa per definire un modo unico di giocare, che nessuno schema potrà mai banalizzare e che forse non avrà eguali. Secondo me, da un punto di vista sportivo, la carriera di Maradona  è stata una carezza che il Signore ci ha voluto regalare, togliendo un pochino di talento a tutti noi e concentrandolo in una persona sola. Perché il talento - a differenza dell’ambizione - non deve e non può essere democratico. Se tutti avessimo lo stesso talento saremmo destinati alla mediocrità. Il talento invece ha bisogno di un protagonista, di un tempo e di uno spazio. E Maradona, che per rispetto verso una persona più grande di me, che non ho mai conosciuto e per lo più deceduta, non chiamerò mai per nome, era tutto questo: protagonista, spazio e tempo. Uno e trino mi verrebbe da aggiungere sorridendo, se non fosse una chiara forzatura, come tante ce ne sono state in questi giorni, dove il buonismo imperante, figlio di colui che muore, riabilita sempre tutto. Perché il genetico genio, dispensato in generosissima dose dal buon Dio che tutto vede e tutto sa, necessitava di un’altrettante gigantesca dose di genetica sregolatezza per poter stare in equilibrio, senza rischiare di far implodere l’ignaro portatore, che senza chiederlo si era ritrovato depositario di un così grande dono. E Maradona, nei suoi 60 anni di vita ha fatto vedere tutto quello di cui era capace: in campo e fuori, nella buona e nella cattiva sorte, in salute ed in malattia, come in una sorta di profano matrimonio col popolo argentino prima, napoletano poi e forse addirittura con tutti gli ultimi, i dimenticati e gli oppressi di questo piccolo e scalcinato mondo. Uno svitato forse, in grado di capire l’importanza della felicità, sia nello sport che nella vita, quando diceva: "Se non sono felice dentro, non riesco ad essere un campione". Quella felicità che un giorno smise di trovare nel calcio e provò a cercare in costose polverine bianche. No, non era uomo equilibrato, mi verrebbe da aggiungere, ma sarebbe soltanto un’altra delle tante banalità che ho sentito in questi giorni, nei quali il mondo si è diviso tra anti e pro. Come se ce ne fosse veramente bisogno. Come se importasse a qualcuno. Come se alla morte di Michelangelo, di Mozart o di Leonardo da Vinci, anziché rallegrarci per i doni da loro ricevuti, avessimo avuto il diritto di giudicare un qualcosa che non ci appartiene, ignorando come sempre che il giudizio non spetta a noi ma a quel Dios che un giorno - secondo gli Argentini - decise di allungare una mano e trasformare un quarto di finale mondiale in leggenda. Perché in fondo Maradona, con i suoi tanti lati oscuri, era il Michael Jackson del calcio: un artista dei tempi moderni, che con mezzi diversi da quelli utilizzati in passato dai suoi simili ha migliorato un piccolo minuto della vita di ognuno di noi. Di tutto quello che ha fatto, per me resterà il suo massimo capolavoro l’aver battuto l’Inghilterra da solo. Un nemico del popolo, contro il quale gli Argentini avevano combattuto ed erano morti per difendere un paio di scogli brulli sperduti in mezzo all’atlantico, che a sinistra dell’oceano sono chiamati Isole Malvinas mente per i sudditi di Sua Maestà Elisabetta II sono da sempre le Isole Falkland. Ecco che allora qui finisce il giocatore e inizia un'altra cosa, che lo colloca, almeno per gli Argentini, assieme a Evita Peron e al Che in quel limbo sospeso tra terra e paradiso dove un umano diventa immortale. E mi viene da sorridere se penso che tutto ciò possa essere avvenuto nel continente americano, una terra che non avendo mai avuto conosciuto la nobiltà, ha visto bene di rimpiazzarla con le celebrità. Ma Maradona non era soltanto una star: era un uomo della strada basso e paffuto, uno dei tanti scappati di casa esattamente come lo sono io, provvisto tuttavia di un talento smisurato nel piede sinistro e forse con una testa piena zeppa di mostri, che per una decina di anni buoni è stata l’unità di misura di un certo tipo di calcio, che da dentro uno stadio è stato in grado di portare un messaggio come prima di lui nessun altro calciatore aveva saputo fare. Maradona era un top player ancora prima che i top player nascessero: lo era e basta, senza sapere di esserlo. Magari non tutti lo hanno amato (e io sicuramente sono tra quest’ultimi) ma di certo erano in pochi a odiarlo. E chi lo odiava lo faceva per paura o per invidia.

Maradona non era Dios, nessuno lo è, e la sua famosa mano oggi sarebbe soltanto un’infrazione da sanzionare col cartellino, ma per i tanti Massimo Mauro cresciuti all’ombra del suo mito, così a Baires come a Napoli, sarà sempre il Davide che - per un secondo - è sembrato in grado di accecare Golia.

Avevo dodici anni quel 3 Luglio 1990, quando la sua Argentina, brutta, sporca e cattiva come tutte le nazionali nate a sud del Brasile, pose fine per sempre ai miei sogni mondiali e alla mia infanzia. E oggi, soltanto trent’anni dopo, ho capito che quella in fondo era soltanto vita, che al pari del vento di Buenos Aires può essere sollievo o frustrazione, a seconda di come la si guardi.



Mirko (con il prezioso contributo di alcuni meravigliosi messaggi presi in prestito dalla chat del Battaglione Boscagli)

1 commento:

  1. Ci vogliamo abbattere le mani ai nostri valorosissimi medici di famigghia?

    .... che seguimento eccellente hanno prestato ai pazienti nel momento dell'estrema necessità!

    Grazie davvero, ce ne ricorderemo!

    Berillio

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