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venerdì 27 aprile 2018

Il soffione

Ti sento. Non mi puoi vedere, ma lo sai anche tu. Sono nel vento che ti accarezza le gambe, mentre appoggiata al balcone, osservi la superficie liscia del lago incresparsi pigramente, laggiù dalle parti della sponda lontana. 

Tra qualche minuto il sole apparirà da dietro le montagne, facendo la sua comparsa nel punto esatto in cui i crinali di quei due monti azzurrini e sfuocati si toccano, formando una specie di V. Avverti il mio sguardo su di te. Ti volti, mi cerchi nel giardino, in strada, sulla piccola spiaggetta ai margini del rigoglioso giardino all’italiana che circonda l’albergo. All’interno di un grosso vaso di coccio, tulipani rossi e primule viola. Viola è il colore che odio… Ricordo con dolcezza frammenti di vita passata. Chissà oggi cosa vedono i tuoi occhi. Eppure una volta pensavamo di poter guardare per sempre le stesse cose. Non so come tu possa essere finita da quelle parti.
Anzi, in realtà non so proprio dove tu possa essere. Provo soltanto ad immaginare. Vorrei affacciarmi dalla portafinestra della camera accanto, scavalcare la ringhiera e cingerti i fianchi con le mie braccia. Infilandoti le mani nelle tasche dell’accappatoio, potrei appoggiare la fronte alla tua nuca umida, permettendo all’odore dei tuoi capelli di aggrapparsi indisturbato alla mia memoria. Impercettibilmente, tiro su con il naso. Lavanda, pino silvestre, cedro: non so, non riesco a capire. Ispiro con forza, cercando di strapparti via un po’ di quel calore che adesso mi manca. Gelsomino! La gente riconosce soltanto quello. E spesso lo confonde con il glicine. 
Apro gli occhi e l’immagine sparisce. Il rumore del pulmino giallo della scuola buca il silenzio. Piccole nuvole color panna si rincorrono sopra la mia testa. Nella mente, però, aleggia ancora il tuo profumo. Sul finire del giorno, una sera di tanto tempo fa, salimmo fino in cima alla Torre del Mangia. Da lassù, tutto sembrava diverso. Visto dall’alto, il mondo assume forme nuove. Ogni cosa cambia, pur rimanendo uguale. Improvvisamente la vita sembra rallentare, come le lancette dell’orologio. Fissando le luci dei lampioni, cercavamo casa mia, indicando le vie con le dita. Perché guardando la città dall’alto, la gente cerca sempre la propria abitazione? Me lo chiedesti scartando un Ciupa Ciups. Non seppi risponderti. Anzi, non ho mai saputo rispondere alle tue domande. E forse è proprio questo che ci ha diviso. "Siamo ancora noi?" mi chiedesti un giorno. "Non lo so", ti risposi svogliato, cercando la sciarpa in attesa dell’ennesima trasferta. Tu eri già grande mentre io ancora sognavo quel posto dove di giorno si fa l’amore e la notte ci si ubriaca. E a distanza di anni, continuo a non saper rispondere alle tue domande. Tuttavia, a pensarci bene, sì, credo di sì. Io e te forse siamo ancora noi. Sempre uguali e immutati nel tempo. Ma poi evito di pensarti utilizzando il noi, perché mi sembra un pronome troppo associativo, troppo distante dalla realtà. Mi sa di superbia e arroganza. Noi in realtà, non siamo mai stati noi. Io e te però abbiamo voluto non cambiare, o perlomeno ci abbiamo provato. Peccato che contemporaneamente il mondo esterno sembrava impazzire a folle velocità, inghiottendo tutto quel che trovava. Dove sono i miei capelli, le mie ginocchia sbucciate e il mio Fifty Top? Dove sono le mie scuse per far tardi, le sigarette nascoste in garage, i libri di viticoltura? In questo drappo di città, fatta di case, chiese e strade strappate alla campagna, alla polvere e alla sete, tutto pare cambiare pur rimando immobile. Non so dirti bene perché. So soltanto che le cose accadono. Il quadro cade. E fra tre giorni, appena giunto a New York, Novecento scenderà dalla nave. Almeno questo lo ricordi? "È più facile ascoltare Guccini il 25 Aprile", ti dicevo snobbando le tue proteste. E per rivalsa, mi davi del fascista, pizzicandomi la pelle della schiena con le pinzette. Poi parlavi dei giorni in cui la banda percorreva le vie del tuo paese ed i cittini correvano tra le gambe delle majorette. Ai tavoli del bar i vecchi partigiani in pensione, contadini prestati alla guerra, guardavano il mondo scorrere, ignorando di essere quasi giunti ai titoli di coda di una vita corta e difficile. Dove sono adesso quei signori? Chiusi dentro un ospizio o tumulati dentro ad un buco, laggiù all’ombra dei cipressini. Mi sarebbe piaciuto conoscere gli anziani del tuo palazzo, salutarli per le scale, mentre rincasavano con la borsa della spesa, pensando al pesce da bollire e alla verdura da mettere in frigo. Ti sento, anche se non dovrei. Cammino e provo a pensare ad altro. A dove potremo essere sabato pomeriggio se le cose andassero in un certo modo. Sì, ti sto parlando ancora di calcio, scusa, ma è più forte di me. E poi tu non hai mai creduto alla mia passione. Vero, vincere forse non cambierebbe niente, ma per una volta avremo comunque la sensazione di essere i primi. E per chi è nato ultimo, è comunque una sensazione inebriante. La Serie B magari non ci renderebbe migliori, ma almeno per una sera ci renderebbe felici. Tu non hai mai capito queste cose. Così come io non ho mai voluto leggere Keruac: più per ripicca che per altro. Ecco, lo vedi? Nemmeno ci sei e già ricominciano le discussioni. Strappo un tarassaco dalla scarpata brulla di questa stretta strada di campagna e soffiando fra i suoi petali lascio che la brezza li porti via lontano. Dalle nostre parti lo chiamano soffione, anche se a me questo nome ha sempre fatto sorridere. 
Vorrei che adesso tu rientrassi dentro la camera. Il sole è già sorto e gli operai del sistemano le aiuole. Sabato non avrò tempo per pensarti, quindi non mi sentirai. Dovrai accontentarti di questo momento. Sabato saremo impegnati nell’ennesima battaglia della nostra vita. Assai diversa da quella dei tuoi partigiani. Sì lo so, è inutile che continui, tanto non capiresti il paragone, quindi mi taccio. Un occhio al campo e un orecchio alla radio. Non ti dirà contro chi giocheremo, tanto non me lo chiederesti. Ricordo soltanto che hai sempre simpatizzato per tutte le nostre avversarie. Ma solo per farmi arrabbiare. Sotto sotto, invece, hai esultato anche tu, con me, con noi. Perché in quelle domeniche lontane da casa, fatte di fumogeni, striscioni e pranzi all’autogrill c’era un pezzetto della nostra vita, che provava a rimanere ferma mentre tutt’intorno il mondo cominciava a girare. Non saremo mai abbastanza grandi per capire tutto ciò e non potremo tornare piccoli per cambiare il futuro. Crescere insieme temo sia molto diverso dall’invecchiare insieme. Perché? Non lo so: le case accadono e basta. Adesso ho capito che significa. Come in un finale di qualche film, durante i quali tu piangevi e io dormivo, mi ritrovo a camminare immerso nella luce del mattino, con in mano lo stelo di un fiore senza colori. Forse chiudendo la finestra un petalo del mio soffione, portato dal vento come un fiocco di neve, ti sfiorerà la guancia, solleticandoti il naso. Accenno un corsetta, mi fermo, riparto. Guardo prima a destra e poi a sinistra. Cerco qualcosa, ma non so bene cosa. So solo che ti sento. E ovunque tu sia, lo sai bene anche tu.

Siena - Piacenza: soffiare sul fuoco è sempre pericoloso. A volte la fiamma si spegne, altre volte divampa in incendio. Teniamo vivo questo campionato. Fino all’ultimo secondo dell’ultima partita. Dopo tanta strada, sarebbe da sciocchi non provarci.

Tutti uniti insieme avanzeremo.



Mirko

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