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venerdì 6 aprile 2018

Il silenzio

Il calcio è un gioco meraviglioso e assai diffuso in ogni angolo del globo. Lo sanno tutti, quindi è totalmente inutile dilungarsi ulteriormente su questo concetto. E’ poi così bello amare il calcio; lo dice anche la vocina prima delle partite di Serie A. Il calcio è veramente lo sport per tutti.
Non è certo un caso se un bambino, che per la zoologia sarebbe niente di più che un cucciolo di umano, dinnanzi al rimbalzare di una palla non può proprio trattenersi dallo sferrargli una sonora pedata. È più forte di lui, perché forse è scritto nel suo DNA. Chissà, magari 120 anni di cultura calcistica hanno modificato i nostri cromosomi a tal punto da farci nascere già con l’ascendente calcistico, così come due millenni di cattolicesimo impediscono alle ragazze di fare sesso al primo appuntamento.
Per giocare al calcio, non serve attrezzatura, non serve un campo e non occorre nemmeno essere in 11. Basta la porta del bagno degli uomini e un groviglio di carta stagnola - che fino ad un attimo prima rivestiva la colazione - per trasformare il corridoio delle scuole medie nel Prater di Vienna. E poco male se a fine intervallo gli stinchi saranno coperti di lividi. L’importante era cantarne quattro a quegli antipatici della seconda A e al loro capetto, quel biondino fastidioso che gioca nel Meroni e ci fa sempre vedere le streghe quando giochiamo contro.

Belli gli intervalli a scuola, così corti e così diversi da quelli delle partite. Nei primi si gioca, mentre nei secondi si riposa, il mister urla ed il the caldo scorre a fiumi. Anche a maggio inoltrato. Di quei momenti mi manca l’odore di canfora, lo scintillio dei tacchetti di ferro sulle mattonelle e i nomi della formazione scritti col pennarello blu dietro alla pagina di un calendario da parete del Consorzio Agrario.
Fosse per me, passerei tutta la vita accanto ad un pallone, come ho fatto per anni durante la mia adolescenza. Il suono della palla che s’infrange sulla saracinesca del garage alle 15 di un pomeriggio d’estate, l’odore di lubrificante rimasto sul pallone incastrato sotto la marmitta di una vecchia Panda, il gusto amaro del sangue che sgorga dalle ginocchia, grattate sull’asfalto incandescente. Campi in terra battuta o rettangoli improvvisati. Dell’erba nemmeno l’ombra, anche perché la poca che c’era se la fumavano tutta i ragazzi più grandi. Porte piccine o tutti contro tutti. Alla tedesca o chi fa goal va in porta. Non era importante come farlo, ma contava quando farlo: praticamente sempre. 
E soprattutto contava vincere. Primeggiare, anche se per un solo pomeriggio, era come dimostrare a quello spicchio di cielo steso sopra di noi di essere i migliori. Vincere sembrava veramente una questione di vita o di morte. Non bastava competere, perché de Coubertin non è mai passato da queste parti. I migliori facevano le squadre e ad uno ad uno sceglievano i giocatori. I più scarsi venivano convocati per ultimi e quasi sempre finivano in porta. C’erano pomeriggi che giocavamo 20 contro 20, in uno spiazzo così grande che i due portieri nemmeno si vedevano. Se non eri più che sveglio, rischiavi di non toccare mai la palla. Una sera, mi accorsi della presenza di un mio amico nella squadra rivale, soltanto sul pianerottolo di casa, mentre rincasando mi salutò, prima di salire al secondo piano del mio condominio. Chi non reggeva quelle sfide, cambiava sport: selezione naturale! Dicevano che la natalità era in calo, ma a differenza di oggi c’era una squadra ogni 3 km. Non esistevano le polisportive: il calcio era lo sport col quale potevi sempre sistemare un torto subito. Il portiere rivale ti aveva franellato la citta al Tendenza? Bastava fargli goal la domenica successiva (e magari dargli anche due scapaccioni, si sa mai che non avesse capito…) e tutto tornava a posto. C’erano le squadre di città, quelle a metà tra campagna e periferia e quelle lontane. Non ricordo bene cosa significasse precisamente lontane al tempo, ma per me già arrivare a San Quirico era una bella trasferta. Anche perché a Buonconvento spesso mi veniva da vomitare. E d’estate poi, calcio al mattino, calcio al pomeriggio, calcio alla sera. Giusto qualche giorno di pausa in tempo di palio per scimmiottare i discorsi dei grandi e riguardare all’infinito tutte le carriere dagli anni '60 ai giorni nostri. E ai più fortunati che potevano andare al mare (quasi tutti in verità, perché dalle nostre parti negli anni a cavallo tra gli ’80 e i ’90 la gente stava piuttosto bene e bastava uno stipendio a famiglia per vivere senza problemi) non facevano altro che trasferire la loro passione dal giardino alla spiaggia. Le ragazze aspettavano il loro turno sedute sulla staccionata del bar, ma non era tempo ancora di raggiungerle dietro alle cabine. Anche perchè un pallone non ha il ciclo una volta al mese e soprattutto non c’ha mai detto di no.
E poi c’era quel silenzio, che scendeva quando tutto taceva. La sabbia della spiaggia, alta come nel deserto durante una tempesta, tornava a posarsi sui bicchieri del ristorante. Nel piazzale di casa restavano soltanto i cocci di qualche specchietto caduto per la giusta causa (danni collaterali, li chiamava un citto più grande) e sul prato dei giardini tornavano a scorrazzare i cani, finalmente liberi di correre, dopo ore passate al guinzaglio. Tutto lentamente taceva, mentre la palla, finalmente libera, rotolava lontano per riposarsi in santa pace dopo tanti calci presi.
Quel silenzio, anni dopo, continua a calare alla fine di ogni partita. Avvolge lo stadio, cancella le voci e ovatta le emozioni. La gente abbandona lentamente le tribune, i giocatori si scambiano le magliette e i tabelloni luminosi a bordo campo smettono di brillare. Ci sono silenzi e silenzi, tutti diversi e tutti uguali. E' così che il silenzio di Pontedera non sarà mai uguale a quello di Piacenza, perché la prospettiva cambia sempre a seconda del punto di vista.
Spesso conosciamo il prezzo dei nostri sogni senza apprezzarne il valore, e arriviamo a comprendere l’importanza delle cose soltanto dopo averle perse. Fu proprio guidando verso Villabiagio che mi resi conto quanto mi mancasse la Serie B. Serie B, che adesso è un passo più in là della nostra mano. Se allunghiamo il braccio, addirittura la possiamo quasi sfiorare. A dispetto di questa brutta forza di gravità che attira verso il basso, nel silenzio surreale di Piacenza abbiamo dimentichiamo Pontedera e le sue amnesie, riproponendoci ancora una volta davanti a tutti. Quassù in alto, da soli, la vista è incantevole e poi c’è un silenzio meraviglioso! E’ arrivato il momento di gettare la maschera e giocoforza riprenderci quello che è nostro! Senza proclami, zitti zitti piano piano, praticamente in silenzio, vinciamole tutte.

Piacenza - Siena: 0-1. Siamo talmente in alto, che mi manca quasi l’ossigeno. Pane para (speriamo…) e Santini segna: pelati al potere!

Siena - Sosta: ma si riposa in casa o si riposa in trasferta? Organizzare un campionato dispari è una cagata pazzesca, anche se a questo giro la pausa cade quasi a fagiolo! In ogni caso, questa Serie C fa schifo: scappiamo alla svelta! Ps. Forza Olbia!

Tutti uniti insieme avanzeremo.


Mirko


PS: sabato 7 aprile alle ore 14,30 a Castellina Scalo la Berretti affronta la Fermana nell'ultima partita di campionato, che vale il passaggio alla fase finale del torneo. Forza ragazzoni!

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