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venerdì 20 ottobre 2017

Il vento e la nuvola

Mentre i giorni si alternano alle notti ed il sole rincorre la luna, le nuvole passano sopra le nostre vite, guardandoci dall’alto e oscurando di tanto in tanto la vista del cielo.
Qualcuna rallenta soltanto per pochi istanti, prima di fuggire lontana spinta da venti impetuosi. Altre invece si soffermano giusto il tempo di un caffè ed altre ancora rimangono così impresse nella nostra mentre che guardando un’alba serena fa quasi male non vederle più. Soltanto gli uccelli sembrano non farci caso: planano sulla terra e ripartono immediatamente. Incuranti di tutto, anche del cielo.
Tu eri la mia nuvola.

Ed io spero di essere stato il tuo vento. 
Che un pomeriggio d’estate arrivò dalle colline a scompigliarti i capelli, mentre gli anziani giocavano a carte ed i bambini aspettavano la merenda. Mi prendesti per mano, in silenzio: in certe occasioni le parole non servono, sussurrasti serena, lasciando che le tue labbra sfiorassero il mio orecchio. E da ragazzo, facesti di me un uomo. Quel giorno, senza farmi vedere rubai il tuo cuore, affinchè gli altri non potessero averlo, lasciandoti in pegno un pezzetto della mia anima. "Custodiscila tu", ti dissi anni dopo - quando da "noi" stavamo mestamente tornando "io e te" - "a me non serve più, perché senza il brivido delle tue carezze sarà tutto inutile".
Ti scrivo queste parole mentre il vecchio pendolo del soggiorno batte i minuti di una notte avara di sonno, durante la quale pensarti è l’unica cosa capace di riempire il vuoto che ha invaso la mia testa. Domenica verrò a Viterbo. L’ultima volta che ebbi tue notizie, era là che abitavi. Ti ricordi la mia passione per la Robur? Al contrario di ciò che mi dicevi - durante quelle lunghe trasferte di tanti anni fa, delle quali purtroppo ho dimenticato quasi tutto, ad eccezione della scritta "Fumagalli componenti" stampata sugli asciugatori nei bagni degli autogrill - quel sentimento brucia ancora.
Ti ricordi qualcosa di noi? Che so... un suono, una frase, un colore. Io mi ricordo di come arrossivi, quando all’inizio di "Leggero", Ligabue raccontava che da qualche parte nel mondo "ci sono macchine nascoste e però nascoste male". Tu non capivi ed io cercavo le parole giuste per spiegarti un concetto più facile a farsi che a dirsi. Il Siena è primo in classifica, lo sai? Proprio come quella volta in cui, per vedere la partita, restammo bloccati in autostrada, con l’auto in panne di sabato sera. "Vorrei svegliarmi una mattina e trovare la nebbia agli irti colli ed il vento di maestrale", mi confidasti quella notte. Lo ricordi? "Non possono esistere mattine così" ti dissi, quasi infrangendo il tuo sogno: non tira mai il maestrale sopra la nebbia. "Allora si vede che il Carducci raccontava bugie" troncasti lì, stringendoti dentro al mio giacchetto di pelle nera. Serena, come sempre. Pensavi che il trascorrere della vita si potesse misurare con il numero di lavastoviglie acquistate: mia nonna sta rompendo la seconda e presto ne acquisterà una nuova: ora forse capisco cosa vuol dire entrare nella terza età. Mi facevi ridere con le tue battute. Con te mi sentivo a mio agio.
"Scappa dalla tua vita", mi imploravi. Non ci sarà mai spazio per entrambi nel mondo che ti stai costruendo. E peccando di arroganza, ti sputavo addosso il mio cinismo. "Non potrai mai essere felice qui", mi confessasti un giorno, imprigionato nei meandri paludosi della provincia immobile, appendice di una città tetra e decadente, ormai vittima del suo passato e carnefice dei suoi abitanti. Io ti guardavo e non capivo, troppo preso da me stesso per pensare a te. O non volevo capire.
Non credo di essere cambiato più di tanto, sai? Domando ancora buongiorno e so chiedere perdono. A volte rido per non piangere e ho quasi smesso di parlare. Ascolto in silenzio e mi pare di essere rimasto l’ultimo a saperlo fare, perché tutti hanno il bisogno di dire qualcosa. E le uniche bugie che dico, sono soltanto mezze verità. Vivo ancora di sussulti e mi emoziono per un niente: Lucio è l’unico Battisti che vorrei veder tornare. Ripenso ai nostri discorsi sconclusionati dopo una serata etilica, ma di quei momenti purtroppo ricordo soltanto il mal di testa del giorno dopo. Sembravi comprensiva quando ti confessavo le mie paure e la notte ti stendevi vicino a me, come se il calore del tuo corpo potesse bastare a proteggermi dai miei incubi. "I nostri antenati ci hanno lasciato piazza, palazzi e duomo", ti ripetevo guardando il telegiornale alla sera, poco prima di cadere esausti, prigionieri di un abbraccio immerso in un sonno liberatorio. 
Noi invece, cosa lasceremo ai nostri nipoti? Tu pensavi alla Torre dell’Isola e scoppiavi a ridere: "Chissà se tra trecento anni la gente pagherà il biglietto per salirci sopra?". Ci facevamo domande al tramonto perché speravamo nelle risposte dell’alba. Questa città non si riprenderà mai, mi dicesti un giorno. "Verso nord la strada e sempre interrotta da cantieri infiniti: forse è la nostra personale Sagrada Familia?" ti chiedevi divertita, per poi aggiungere: "Tra un secolo, saremo ancora qua, in fila fra le Badesse e Monteriggioni". "Nemmeno la strada verso sud se la passa poi tanto meglio", continuavi, "stretta e tortuosa come ai tempi dei Romani". "In questo posto, una volta arrivato, non puoi più ripartire. Anche perché ad Ovest ci sono le montagne, mentre a Est dicono abiti una strega cattiva". "Ma tanto il mio Mago di Oz l’ho già trovato", squittivi divertita, fingendo di sbattere i tacchi. "Vorrà dire che della città di Esmeralda mi accontenterò di un souvenir magnetico da attaccare allo sportello del frigo". E di tanto in tanto, con la tua calligrafia rotonda, aggiungevi la parola Dorothy sotto la scritta "Ti amo" impressa nella condensa del grande specchio del bagno. Eri un porto sicuro e sapevi calmarmi. Sfiorandomi il palmo della mano con la punta delle dita, lasciavi che la tensione defluisse dal mio corpo, prima di parlarmi di te, di ciò che eri stata prima di me e di quanto lo starmi vicino ti rendesse completa. 
Non so perché arrivammo a salutarci, forse fu colpa di entrambi o forse è soltanto così che doveva andare. O magari fu davvero la strega dell’Est a sottrarci il lieto fine, strappandocelo di mano per tirarselo dietro alle spalle come la sposa fa con il bouquet. E allora chissà, magari quel finale potrebbe essere piovuto in mano a qualche altra coppia, che adesso sta bivaccando dentro al nostro "Vissero felici e contenti". Curavi i miei pensieri strampalati con frasi dolci e parole semplici. Da qualche parte sotto al ciondolo di tuo nonno appeso alla catenina della prima comunione, ti batteva forte il cuore mentre cercavi di apparire sexy. Eri tutto quello che avevo. E non mi serviva altro.
Domenica, andando a Viterbo, ti penserò. Vorrei avere la forza di non farlo, spengere il cervello e ricominciare da capo. Ma so già che non resisterò alla malinconia di perdermi ancora una volta nel ricordo del tuo profumo. Sperare di vincere sarà l’unico buon motivo per alzarsi dal letto e cercare di tenerti lontana. La montagna, il lago, gli ulivi. Eri come il verde delle campagne in primavera: migliaia di sfumature diverse tutte del medesimo colore.

Viterbese - Siena: non sappiamo questo vento dove ci porterà. Finora la nostra nuvola ci ha condotto sopra ai cieli di molte città, dalle quali siamo sempre usciti a testa alta. Adesso inizia un periodo durissimo, che tra quindici giorni ci dirà veramente chi siamo. Avanti Robur, è arrivato il momento di dare un senso al domani e costruire il nostro futuro.

Tutti uniti insieme avanzeremo.


Mirko

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