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venerdì 23 settembre 2016

Il bisogno di altrove

Se è vero come dicono che la vita inizia a quaranta anni, tutto ciò che c’è prima, se non è vita, che cos’è?
"1979" degli Smashing Pumpkins già sfumava lentamente sui titoli di coda della nostra adolescenza che non avevamo ancora capito cosa farne di noi. Ma non c’era tristezza in quel dubbio, soltanto una malinconica accettazione della realtà. Se ogni generazione ha un qualcosa di speciale che la caratterizza e la contraddistingue dalle altre, rendendola unica ed irripetibile, i pilastri che reggevano la nostra affondavano nel “bisogno d’altrove”, a causa del quale, la felicità, pur visibile e a portata di mano, finiva sempre per essere sempre un pezzetto più in là della punta delle nostre dita. E la sua inafferrabilità era spesso legata al disagio creato dal pensiero effimero che “altrove” tutto sarebbe stato migliore e meno complicato. E con quel disagio tra pancia e stomaco siamo cresciuti, convincendoci che la vita non sarebbe stata mai perfetta. Come viaggiare in auto, senza una ruota.
Ci sono materie che la scuola non insegna e risposte che ognuno deve trovare dentro di sè, anche quando decide di non porsi mai domande. Chi è nato sul finire degli anni '70 o agli inizi degli '80 in realtà aveva poco da chiedere. Il millennio stava finendo e nelle stazioni il pendolino aveva mandato in pensione il settebello. Lo stato combatteva se stesso ed in Friuli paesi vecchi di mill’anni erano appena stati rasi al suolo da un terremoto senza presa diretta, droni e snapchat. Noi muovevamo i primi passi incerti su quel mondo sconosciuto, mentre una voce fuori campo ci diceva: guardate, tutto questo un giorno sarà vostro. 
Il mondo stava cambiando a velocità folle, sospinto dalla voglia continua, e a volte tossica, di un progresso capace di divorare tutto: passato, usi e abitudini vecchie di decenni. Nel giro di qualche lustro anche il modo di educare un figlio fu stravolto – ed a volte distorto. Chi è nato sul finire degli '70 è il più giovane dei vecchi e il più vecchio dei giovani. E chi non riusciva a trovare dentro di sè la forza di capire dove andare, rimase schiacciato dal peso di una società che velocemente si stava trasformando da analogica a digitale. Quello che le generazioni precedenti chiamarono “il male di vivere” e cercarono di combattere con l’eroina, il rock and roll e le bottiglie molotov, per noi fu soltanto un vuoto da riempire. Che tuttavia si dimostrò incolmabile, nonostante gli sforzi. E col tempo quel buco, reale e immaginario a giorni alterni, come le domeniche dei nostri genitori, divenne un compagno di vita.
Avvertivamo dentro di noi il crescente peso del “bisogno di altrove” e ci dannavamo l’anima nel tentare di riempirlo. La vita divenne improvvisamente frenetica, come se tutta quella velocità potesse impedire al cervello di riflettere. Prima nella storia, la nostra generazione smise di rompersi i coglioni e annoiarsi fu considerato un difetto da curare. I nostri genitori avevano affrontato il ’68, che era passato sulle loro teste come il rapido Taranto-Ancona: alcuni ebbero la forza di spostarsi, altri vennero travolti. Nel bene o nel male, tuttavia, tutti ne uscirono “cambiati”. I nonni erano quelli di Cefalonia e dell’Italia dell’otto settembre. Nei nostri cromosomi l’incertezza aromatizzava le molecole di DNA, sfocando i contorni e rendendo tutto più confuso. Vero, non conoscemmo mai la fame, ma imparammo a combattere con le diete, perché la televisione insegnava che apparire era più importante di essere. E di fronte al piccolo schermo, prendemmo la pessima abitudine di innamorarci dei personaggi e non delle persone.
Col tempo diventammo un esercito di “compratori”, per i quali “desiderare” risultava più facile che “sognare”. A nessuno interessava la nostra opinione: non servivano visionari o pensatori. Occorreva soltanto crescere dei “clienti soddisfatti o rimborsati”, ai quali vendergli di tutto. Tutto mutava e noi eravamo il pendolo del presente che oscillava tra passato e futuro. E nella sua oscillazione, se da un lato lambiva le ultime domeniche pomeriggio della storia passate in discoteca, dall’altro arrivava al telefono cellulare. E nel mezzo ci stava di tutto. Per anni sembrò di galleggiare in alto mare, sdraiati sopra ad un materassino sgonfio. Alcuni di noi si trovarono i genitori divorziati e a scuola furono visti come “diversi”. Molti altri dovettero assistere inermi a decenni di litigate e nervosismi, perché babbo e mamma avevano scelto di rimanere insieme “per il bene dei figli”, che a forza di vederli infelici e depressi arrivarono ad odiarli. Altri ancora non vennero battezzati in chiesa e a dieci anni non passarono a comunione. A loro toccò essere quelli “strani”. Per strada uomini senza casco cavalcavano potenti motocicletta mentre uomini senza motocicletta indossavano il casco e sparavano proiettili lacrimogeni.
Noi guardavamo e restavamo in silenzio, senza capire la differenza tra sesso e amore, tra ambizione e incoscienza e tra trasgressione e puttanate. Le cose serie non ci parvero mai tanto diverse dalle sciocchezze. Ci venne insegnato il timore verso la droga, ma nessuno ci disse mai perché l’uomo finisce per drogarsi. Quello, alcuni di noi, lo conobbero a loro spese anni dopo, e fu uno dei pochi punti in comune con i ragazzi delle generazioni precedenti. Tutte le sere all’ora di cena Paolo Frajese ci faceva compagnia da dietro la scrivania del TG1. E dicendoci cosa pensare, ci sgravava di un peso. Il muro era ancora un confine netto tra due stili di vita eterogenei e non mescolabili, come l’acqua e l’olio, e non soltanto uno strepitoso album dei Pink Floyd. Dentro di noi il “il bisogno di altrove” e l’impossibilità di poterlo placare o soddisfare, rimasero per anni le uniche certezze di una vita stretta fra il vecchio che cozzava col nuovo.

Prato – Siena: altrove sarebbe stata una domenica differente, fatta di gente, tribune e diretta Sky. Altrove non saremmo stati qui a parlare di fallimenti, debiti e comunicati. Altrove non ci sarebbe stato spazio per ladri e briganti. E magari adesso Prato sarebbe ancora soltanto un casello dell’autostrada sulla via del mare. Ma l’altrove è soltanto un miraggio, come l’amore e la felicità, che resterà tale nei secoli, se non ricorderemo al più presto come si fa a sognare. A volte basta un pensiero felice per tornare “altrove, sull’isola che non c’è. 

Tutti uniti insieme avanzeremo. 


Mirko

2 commenti:

  1. Mirko... io, quando ti leggo ...divento GAY! Te sei un GENIO e siccome io il genio lo adoro e lo amo... mi sono innamorato di te.

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    1. Vai...se fate domanda al Comune vi danno anche la casa!

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