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sabato 13 febbraio 2016

Le regole dell'aquilone

La collina vista dalla strada sembra un luogo qualunque, se non fosse per la grande costruzione posta alla sommità, che la distingue nettamente da tutte le altre.
Gli alberi nascondono il resto, ad eccezione di un campo da calcio in erba sintetica, la grande cantina e le stalle. Spira una leggera brezza di terra, che solletica le ultime foglie rimaste attaccate ai rami e tiene lontano il profumo del mare.
Non ci sono turisti in giro e l’estate è un vago ricordo che si perde nella foschia all’orizzonte. Nel cielo grigio di febbraio, un gruppo di aquiloni colorati giocano a rincorrersi nel vento. Alcuni seguono rotte precise, altri vagano nell’aria senza regole, mettendo seriamente a rischio l’integrità del filo che li tiene ancorati a terra. Dal basso, nascoste alla nostra vista, mani esperte combattono per non farli precipitare. Il tempo scorre lento. 
Al cancello d’ingresso, una sbarra rossa e bianca segnala che non è il caso di entrare senza invito, ma si solleva velocemente appena un robusto ragazzo dall’accento sardo finisce di verificare le nostre credenziali. Per entrare ci sono due modi: o ti attende qualcuno dentro, o ti aspetta una vita fuori. Una volta entrati, la percezione del mondo cambia immediatamente e tutto pare ovattato. Centinaia di ragazzi giunti da ogni parte d’Italia, senza distinzione di ceto sociale e possibilità economiche, si muovono per i viali seguendo un disegno preciso: tutti hanno un lavoro da terminare entro sera e tutti lo termineranno. Sono tanti, ma non sono numeri: ognuno di loro ha un nome. Per il soggiorno non ci sono rette da pagare, ma soltanto regole da rispettare. 
La prima è la più importante: l’ingresso della struttura è aperto, nessuno tiene in ostaggio nessuno, perché non ci sono controllori. I ragazzi si controllano da soli, seguendo un preciso ordine gerarchico basato sull’anzianità. Un ciclo di cura può durare dai 4 ai 6 anni: molti di loro, una volta dentro, si ambientano e non escono più. Il 70 per cento è percentuale di successo: tutti gli anni un esercito di bimbi sperduti vengono restituiti ad una vita normale. Il 30% non ce la fa e scappa via, spinto lontano da un vento malato, fino a quando, esausto e corroso dal male di vivere, non precipiterà a terra. Accompagnati dal nostro interlocutore, passeggiamo per la struttura parlando di affari, ma la testa è altrove. L’età media degli ospiti è sui 25 anni, ma vedendo anche tanti coetanei, mi rimangio la domanda sull’età dei più piccoli. Come se avesse percepito la mia curiosità, il nostro anfitrione esclama: “Hanno 13/14 anni, quasi tutte ragazze. Adulte mai state bambine! Per molte di loro è sempre stato più facile farsi portarsi a letto che invitare a cena. Alcune addirittura arrivano qua con un figlio in braccio: regalo magari della distrazione di un pusher.” Penso immediatamente a mia figlia in seconda media e mi salgono le lacrime. 
Gruppi di ragazzi di sesso diverso si sfiorano, ma non si parlano. Seconda regola: per conoscere una ragazza, ci vuole il permesso di un responsabile anziano e lo si può richiedere soltanto dopo tanti mesi di cura. La riabilitazione non prevede infatuazioni. E se anche un giovanotto riuscisse a ricevere il permesso di conoscere la signorina con la quale da tempo s’incrocia lo sguardo, sa perfettamente che dopo un primo periodo di “frequentazione” gli verrà imposto un lungo allontanamento: solo stando lontani capiranno se c’è qualcosa di più oltre all’attrazione fisica. La riabilitazione non prevede la passione.
Rimango sbalordito osservando la folla composta che si dirige verso il refettorio: nessuno fuma. Terza regola: le sigarette sono bandite. All’ingresso della spettacolare e immensa sala da pranzo con vista a 360° sul mondo, noto un signore che potrebbe essere mio padre con un bimbo in braccio. Mi sale l’ansia e mi si blocca lo stomaco. Il bimbetto si guarda intorno perplesso prima di scoppiare in un meraviglioso sorriso sdentato: tra la folla silenziosa ha scorto la mamma. Mi sento come se mi avesse investito un tram. Con la paura di disturbare mi siedo al tavolo dei cantinieri, a fianco di un ragazzo toscano. Sembra un Dio greco tanto è bello; vorrei chiedergli perché è finito qui, cosa gli è mancato, quali sono state le scelte che ha dovuto sbagliare. Invece me no zitto. Mi confida che vorrebbe diventare un cuoco e gli rispondo che magari un giorno lo vedremo a “MasterChef”. Appena finisco di pronunciare la frase, me ne pento subito: non so se qua dentro sanno cosa sia. Per salvarmi dal mio evidente imbarazzo, mi risponde: “Magari” e poi mi informa che cinema e televisione vengono guardati tutti insieme nel grande palacongressi, nel quale più di una volta squadre di basket professionistico hanno tenuto stage ed allenamenti. 
Ad un preciso segnale, 1500 ragazzi si alzano in piedi, rimanendo per diversi secondi in silenzio. Ognuno pensa a ciò che vuole: è un’altra regola da rispettare. Nell’assordante e silenziosa immobilità, realizzo che in sala è presente un solo cellulare, il mio: sta vibrando all’impazzata sotto la giacca o forse è solo il mio cuore che batte forte. Finito il silenzio, iniziano a servire il pranzo insieme ad un bicchiere di vino rosso a testa: è una comunità, non un carcere. Camerieri e cameriere girano svelti tra i tavoli, prendendo ordinazioni senza scrivere niente. Sono pazienti anche loro e sono tenuti a non scordarsi le cose: allenamento mentale e rispetto delle regole. Sfumature totalmente assenti nel dipinto delle loro vite precedenti.

Rimini – Siena: ci sono aquiloni che volano sereni e sanno dove andare, altri che incespicano ma riprendono da soli il vento del destino e altri ancora che si perdono nel buio della notte, in attesa di qualcuno che li riporti nel mondo dei vivi e li ancori saldamente allo scoglio della vita. Domenica prossima celebreremo San Valentino, scambiandoci cioccolatini e completini intimi, guardandoci negli occhi e rinnovandoci promesse di amore eterno. Ma che cos’è in fondo questo amore? Francamente non lo so e non sono nemmeno sicuro che esista, ma quello che ho visto l’altro giorno dentro alla comunità di San Patrignano, a pochi passi da Rimini, se non era amore, ci somigliava tanto. 


Tutti uniti insieme avanzeremo! 


Mirko

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