Il canale youtube di wiatutti!

lunedì 9 marzo 2015

La faziosa armonia


Finora abbiamo indicato e brevemente analizzato alcuni tratti peculiari che caratterizzavano i Senesi del passato. Tutti significativi e qualificanti, per carità, ma non abbiamo toccato l’aspetto grazie a cui siamo “famosi” più o meno nell’intero orbe terracqueo, ossia l’essere contradaioli, appartenere ad una comunità di persone e ad un territorio che prendono il nome di Contrada. 


Contrade che a complicare ancor più la faccenda, ormai da secoli partecipano con passionalità ineguagliabile ad un gioco chiamato Palio (ad un gioco sì, avete letto bene, non a caso tanti dei nostri vecchi, sentiti più volte personalmente e talora in interviste televisive del passato, lo definivano il “giochino”), patrimonio unico di una collettività che ha sempre presentato caratteristiche particolari, per non dire anomale. 
Sto entrando in un terreno quanto mai scivoloso, ne sono perfettamente consapevole, ma dopo aver accettato la richiesta dell’amico al-Mutanabbi di fornire qualche elemento utile a destrutturare il concetto di Senesità, non potevo certo esimermi dal dire due parole su ciò che qualifica di più i Senesi di oggi come del passato, anche remoto. 
Perché il temperamento, le attitudini, la personalità di questo popolo si rivelano da secoli sul Campo, nella partecipazione alla corsa del Palio (ma prima ancora gareggiando in altre tenzoni), e nell’essere parte attiva di una fazione, di una parte della città, che nel tempo assumerà denominazioni e caratteristiche diverse. 
Con una fortunatissima intuizione, oltre trenta anni fa Giuliano Catoni definì questa peculiarità senese “la faziosa armonia”, titolo di un fondamentale saggio del quale sono ancora oggi famelico lettore e ampio debitore, avendo ispirato anche queste poche righe. In quelli che sono i connotati della passione contradaiola, infatti, si celano molte delle inclinazioni dei Senesi, perlomeno di quelli del passato: la voglia di primeggiare, non solo e non necessariamente vincendo, ma mostrando di essere più potenti e capaci, di umiliare gli avversari, di far pesare la propria appartenenza ad un gruppo che dimostri in ogni occasione di essere il più valoroso, il più forte, il più bravo, il più elegante, se possibile il più numeroso o ricco, e, perché no, anche il più fortunato. 
Gruppo a cui, una volta tramutatosi nella Contrada come la conosciamo oggi, si è legati in modo così profondo e ancestrale da trasformare spesso l’amore se non proprio in odio, almeno in avversione, ostilità, acredine, verso chi cerca di ostacolarti, di contrastarti, ovviamente perché vuole raggiungere gli stessi obiettivi ed è mosso dalle medesime passioni. Sono queste le motivazioni, primitive e al tempo stesso profonde, che “prescrivono un nutrito repertorio di violenze tra gruppi contendenti, quasi funzioni rituali che fungono da elemento di coesione popolare e di naturale richiamo ad un passato tuttora condizionante”, scrive Catoni. 
Perché nel Campo, prima che correre il Palio, si giocava (diciamo così) all’elmora, alla pugna, alla pallonata, alla caccia ai tori, divertimenti (!) dove la violenza era intrinseca al gioco stesso e dove, se si usciva dalla sfida solo feriti e con qualche ammaccatura, bisognava ritenersi fortunati. E quando nel Seicento inoltrato si cominciò a disputare il Palio, dove i contradaioli non avevano più parte attiva e potevano solo assistere alla giostra, ogni occasione, anche la più labile, divenne pretesto buono per misurarsi fisicamente con gli avversari (d’altra parte il Palio stesso, fino a non troppi decenni fa, era una giostra, non certo una corsa di cavalli come oggi, in cui la violenza, l’aggressività e l’impeto la facevano da padrone anche durante l’agone e tra fantini). 
Pensate che la prima memoria certa di un diverbio tra Contrade risale ai primi del Cinquecento, autentica preistoria contradaiola, quando Selva e Oca litigarono aspramente non per fondamentali questioni di territorio o chissà per quale imperdonabile sgarbo, ma per l’ordine di ingresso del corteo che precedeva le cacce ai tori, la cui chiusura era riservata alla prima, privilegio preteso anche dalla seconda. La spinosa questione si trascinò per anni, finché nel 1525, addirittura di fronte al notaio Giulio Nerini, sei ocaioli, in rappresentanza dell’intero rione, riconobbero il diritto alla Contrada di Vallepiatta, giurando di osservarlo sotto pena di 500 denari di multa. 
Le Contrade, quindi, ormai da secoli sono le custodi fedeli e gelose dello spirito senese, aspetto talvolta colto anche da qualche forestiero particolarmente avveduto. Come il diplomatico tedesco Alfred von Reumont, per molti anni funzionario a Firenze e poi, tra il 1851 e il 1860, lì ambasciatore per il governo prussiano, che in un articolo per il giornale “Das Morgenblatt”, in cui descriveva la festa senese dell'Assunta effettuata nel 1840, vergava le seguenti illuminanti parole: “il Senese sì fortemente al simulacro d'un tempo si attiene, ove era una città in diversi partiti divisa, che – comunque non venisse mantenuto l'oggetto originario – pur molto si è del primitivo spirito conservato”. 
Per il momento ci fermiamo qui, ma sull'attenersi “al simulacro d'un tempo”, sul ruolo delle Contrade e sul significato dei giochi nel Campo, bisognerà necessariamente tornare...

(continua)




Roberto Cresti

Nessun commento:

Posta un commento