Dopo aver parlato dell’affabilità e senso di ospitalità,
riprendiamo il filo del discorso su come erano i Senesi del passato,
per dire che il tratto peculiare con cui erano maggiormente
conosciuti al di fuori della città fu di gran lunga la loro pazzia,
stranezza e atipicità, che per qualcuno scadeva fino a vera e
propria insensatezza, nomea tanto persistente nei secoli che ad un
certo punto i Senesi stessi sembrarono accettarla, se non addirittura
usarla con una discreta dose di malizia.
Come si sia originata questa
fama è difficile da comprendere: in parte traeva le proprie
fondamenta da episodi di “cronaca” dell’epoca, su cui magari ci
soffermeremo un’altra volta, che in qualche misura la avvaloravano.
In parte si trattava di mera calunnia verso una città che stava
cominciando a rompere un po’ troppo le uova nel paniere a chi da
tempo voleva conquistare l’intera Toscana, considerato che quasi
tutti i principali protagonisti di tanta acredine verso i Senesi
erano di provenienza fiorentina. D'altro canto, è anche probabile
che sia stato solo un fine gioco letterario, fatto di più o meno
raffinate denigrazioni, cui in risposta si contrapponevano panegirici
sulla nobiltà e le virtù dei Senesi.
Di sicuro possiamo affermare
che tale reputazione cominciò a diffondersi tra Trecento e inizio
Quattrocento, e probabilmente il primo a descrivere così il nostro
carattere fu un calibro da novanta come Dante Alighieri, nientemeno
nella “Divina Commedia” e addirittura non una ma ben due volte!
Ma Dante è Dante, si sa, per cui conviene dedicargli uno spazio
tutto suo.
Tuttavia, sulla scia del Sommo Poeta altri testimonial
d’eccezione picchiarono duro sui Senesi, arrivando a raffigurarli
come stolti e sciocchi, nonché di umili ascendenze.
Come già detto
in una precedente occasione, in quest’ultimo filone va inserito
Giovanni Villani che nella “Nuova Cronica”, proseguita dopo la
sua morte dal fratello Matteo e dal nipote Filippo, screditò
pesantemente Siena, sia inventandosi di sana pianta il racconto di
come era divenuta sede vescovile, sia attribuendogli un’origine
“bassa e non molto lontana dai suoi tempi”, essendo stata fondata
appena nel 670 d. C. da Carlo Martello; ma sull’inconsistenza
storica del racconto, è perfino inutile soffermarsi.
Più o meno in
quegli stessi anni, a cavallo della metà del Trecento, fu poi
Giovanni Boccaccio a far riferimento alla “bessaggine de’ sanesi”
nella decima novella della settima giornata del “Decameron”, che
sarebbe risultata evidente nel terzo racconto narrato da Elissa in
quella stessa giornata. Si tratta della novella in cui frate Rinaldo
da Siena, “un giovane assai leggiadro e d’onorevole famiglia”,
viene sorpreso dal marito di lei mentre per l’ennesima volta si sta
“trastullando” con Madonna Agnesa; la donna, tuttavia, con grande
prontezza di spirito, invece di confessare l'adulterio, apre la porta
della camera, inventando su due piedi una scusa clamorosa al
consorte: l’amico frate si era precipitato a casa perché il loro
piccolo figlio aveva dei “vermini in corpo” che in poco tempo
sarebbero giunti al cuore, provocandone la morte. Per fortuna Rinaldo
conosceva alcune orazioni per liberarlo dal malessere, e così il
bimbo era subito guarito. Il marito abbocca alla grande e in segno di
eterna riconoscenza nomina il frate come padrino del figlioletto,
organizzando una festa in suo onore con “buoni vini e confetti”.
Ora, nella novella l’uomo senese non spicca certo per scaltrezza, e
la definizione di “besso” che gli affibbia perfidamente Boccaccio
non fa una grinza; il termine “bessaggine”, infatti, significava
dabbenaggine, stoltezza, scempiaggine, e quindi l'aggettivo “bèsso”,
o “bèscio”, va inteso come sciocco. Lo scrittore
fiorentino non lo dice, ma chissà, magari il povero marito aveva
bevuto troppa acqua di Fontebranda, mentre Rinaldo e Agnesa,
anch'essi senesi, ma tutt'altro che sprovveduti, anzi piuttosto
vispi, non se ne erano abbeverati così in abbondanza!
Che c'entra
ora Fontebranda, direte voi; c'entra, perché secondo Boccaccio il
principale responsabile della pazzia e dabbenaggine dei Senesi
sarebbe stato proprio il prezioso liquido che sgorgava dalla fonte
più famosa della città, detta Branda, o meglio Blanda come la
ribattezza lui stesso, proprio per la “blandizia” del suo
zampillare.
Leggenda, anch'essa, talmente celebre, che diversi secoli
dopo addirittura Vittorio Alfieri si incaricò di sfatarla nel CXII
sonetto, quando scrisse che “Fontebranda mi trae meglio la sete,
parmi, che ogni acqua di città latina”.
La scanzonata denigrazione
boccaccesca, comunque, aveva ormai preso piede e qualche decennio
dopo un altro fiorentino, il barbiere Domenico di Giovanni, meglio
noto come il Burchiello, autore di vari sonetti beffardi e
strampalati, la riprese per lanciare diverse invettive verso i
Senesi, additati come pazzi o giù di lì (“Se vuoi far l'arte
dell'indovinare, togli un Sanese pazzo, e uno sciocco, un'Aretin
bizzarro e un balocco, e fagli insieme poi tutti stillare”; oppure:
“Che non è besso a Siena che
’l credesse”; e ancora: “Però che vagheggiando gli Orvietani
viene loro nell'ugna tanti patereccioli quanti ha in Siena cervellin
balzani”). La sua cattiveria, però, aveva radici
personali, che rendono i giudizi espressi poco credibili: i Senesi,
infatti, erano solo rei di averlo imprigionato per sette mesi nel
1439, periodo in cui Domenico si era trasferito nella nostra città;
e saranno stati anche pazzi, ma i documenti dell'epoca parlano di ben
tre pene pecuniarie “guadagnate” dal barbiere per ingiurie e
percosse, mentre la condanna al carcere gli fu inflitta per uno
strano furto di indumenti femminili, che quando chiese la grazia con
una petizione al Consiglio Generale tentò pietosamente di
giustificare, qualificando l'episodio come un equivoco nato da una
sua avventura galante. Ottenuta la libertà, rimase tra i “pazzi”
senesi fino al 1445, quando cercò miglior fortuna a Roma, che
peraltro non trovò, morendovi quattro anni dopo in precarie
condizioni economiche.
Dunque, finora le accuse di pazzia rivolte verso i Senesi non
sembrano particolarmente credibili o motivate, ma prima di tirare le
conclusioni dobbiamo senz’altro attendere il giudizio
dell’Alighieri….
Roberto Cresti
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