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mercoledì 6 giugno 2018

7 minuti

7 minuti. Troppi, pochi, inutili, fatali. Un soffio di vento per un bimbo, un traguardo prezioso per chi, dentro alla clessidra della vita, sta terminando la sabbia. Un granello alla volta, alla volta della fine. Sugli spalti, centinaia di occhi seguono il gioco: un occhio al campo e uno al tabellone luminoso. Sembra un lunghissimo ultimo dell’anno: contiamo i secondi alla rovescia come nei film americani poco prima della partenza del razzo. 
7 minuti. Cosa vogliamo che siano poche manciate di secondi rispetto a 9 appiccicosissimi mesi, fatti di sole cocente, delusioni amare, pioggia battente e speranzosa gioia. E quasi sempre il vento contro… Il cuore abbondantemente oltre l’ostacolo, batte, martella e pompa nelle vene sangue impazzito: le parole biascicate escono dalla bocca ancor prima di trovare alloggio nel cervello. A stento seguiamo il coro degli Ultras, perchè quello che i polmoni riescono a buttar fuori appare più una nenia mielosa, un mantra ancestrale o forse la filastrocca di una vecchia ninna nanna. Vorrei avere la forza di non guardare, come da piccolo davanti a una scena di un film dell’orrore. Mi celo gli occhi con la mano, ascoltando il respiro dello stadio. 
7 minuti ancora, poi tutto sarà finito. Il silenzio tornerà a planare su questo fazzoletto di città e la gente rientrerà nella propria vita. 
7 - come i colori dell’arcobaleno, i peccati capitali e i giorni della settimana - minuti piccoli, ridotti ed esigui, forse insignificanti brandelli di tempo appesi da qualche parte, nel soffitto della nostra domenica. La palla danza sul campo. 
7 minuti rispetto ad una vita intera sono pochi spiccioli di rame lucente da conservare nel salvadanaio di coccio sulla mensola della cucina, eppure possono cambiare tutto. Un aereo perso, un'occasione sfumata, un treno che non ripasserà. Colui che imparò a misurare il tempo, accecato dalla sua scoperta, dimenticò di dargli un senso, ritrovandosi a vivere giorni tutti uguali, durante i quali le ore si accavallavano senza un apparente motivo. Il numero rosso della lavagna elettronica invece, oltre a definire i confini della nostra speranza, rende il tempo materico e consistente. La lancetta scorre, un giro, un altro e un altro ancora. Tutto si fa denso. L’aria fresca scaccia il calore del giorno aggrappato ai ferri della tribuna. 
7 minuti ancora e poi saremo liberi: le porte della prigione torneranno ad aprirsi e una coltellata di sole entrerà nell’androne del carcere, illuminandone per qualche metro l’ingresso buio e polveroso. Fuori, nel tepore caldo della libertà, ci sarà la calma di una vita normale mentre l’infernale solitudine delle catene sarà soltanto un brutto ricordo. Ma tra il "qui" ed il "là", ci sono ancora 7 minuti. Urlanti e muti, soavi e dirompenti, leggeri e pesanti. 
Mi guardo intorno con aria spaesata. Non riesco a definire bene lo stato d’animo dei miei vicini. Al mio fianco, figli oramai cresciuti o bambini divenuti ragazzi sembrano ipnotizzati. Gridano qualcosa di incomprensibile, ma le parole arrivano distorte alle mie orecchie. Dietro di me, un vecchio signore pare rammentarsi della morra giocata ai tempi del servizio di leva, unica occasione per togliersi di casa e vedere il mondo con un’angolazione differente, e sputa nell’aria numeri a caso. Lo guardo dubbioso, senza capire. 
Basta, a questo punto la palla deve stare lontana dalla porta. Mi sfrego le mani come quel giorno con la neve. È un tutti contro tutti. Un corpo a corpo dal quale uscirà soltanto un vincitore, perché il tempo dei pareggi è finito e alla gloria mancano soltanto 7 minuti. Mi riparo gli occhi dal riverbero dei riflettori, tenendo la mano appoggiata di taglio sulla fronte, poco sopra le ciglia. In assenza del sole, pare più un saluto militare. I fari aumentano d’intensità, come una lampadina poco prima di fulminarsi. O forse è soltanto una mia impressione. Il bianco dei tabelloni luminosi dall’altra parte del campo fa sparire la palla. Per un istante ho l’impressione di assistere ad un balletto: 22 ragazzi che corrono su di un prato verde senza un apparente motivo. 
Il 90° è passato da un pezzo, di quei 7 minuti adesso non rimane che un mucchietto di cenere. Il cotone della polo comincia a tendersi all’altezza del petto. Manca poco oramai: è giunta l’ora di partire o di finirla col sognare una partenza. Un refolo di aria fresca solletica la pelle delle braccia. Il pallone danza sul confine della nostra area. Sfugge dalle mani incerte di un portiere fragile, troppo insicuro per appartenere a questi colori. Rimbalza una, forse due volte. S’impenna verso il cielo e raggiunto il suo apice, punta dritto verso la porta sguarnita. Quello che segue non ha più forma né sostanza. Dentro la testa qualcosa si rompe. Uno schiocco sordo dilaga nel cervello, simile al rumore di funi spezzate dalla troppa tensione. Mi volto, balbetto, strascico i piedi in cerca di uno sguardo. Le grida delle persone sembrano lontanissime, mentre tutto si muove al rallentatore. Raccolgo la mia roba, saluto e tolgo il disturbo. Mi giro verso il campo un’ultima volta. Un fiume di persone sta lasciando la tribuna. "Aspetta", mi sussurra una vocina. Un gradino alla volta, salgo verso l’uscita. "Fermati", ancora quella supplica. I ragazzi della Pubblica Assistenza, arancioni come i tifosi della Pistoiese, mi lasciano passare. Sibilo qualcosa di irripetibile nei confronti del cielo: una ragazza mi guarda torva. Vorrei dirle che solo chi crede può prendersela con Dio, ma non ne ho la forza. Da un posto lontanissimo arriva alle mie orecchie la voce di mia figlia, attardatasi qualche metro dietro di me. Mi sento come la mattina dopo una sbornia: in testa mi ronza uno sciame di calabroni. Mi volto per invitarla a raggiungermi, ma un secondo prima di aprire bocca, mi accorgo della scintilla nel suo sguardo, che da fiammella in pochi attimi pare diventare incendio: sta gridando una sola parola, con tutta la forza che possiede: "Rigore, rigore, rigore". Con la mano indica qualcosa, un punto lontano. Rigore: cielo e terra adesso sono tutt’uno. 
7 minuti sono pochi, eppure sembra passata una vita intera. Mi volto con estenuante lentezza. La ragazza con lo sguardo torvo adesso sorride. Ritorno sui miei passi, dimenticandomi per un secondo di tutto il resto. Il telefono forse vibra o forse è soltanto una mia impressone. Mi siedo da solo al centro dei gradini, nel lato più estremo della curva. Ognuno vive l’attesa come meglio crede. Voglio non guardare. Dal boato capirò se quella palla di pelle di vitello appoggiata su una macchia di gesso bianco entrerà o resterà fuori dal nostro destino. Nelle tempie martella un ritmo tribale, che sa di paesi lontani e posti esotici. Rincorsa, finta. Il mondo si ferma. Quanto è lungo un istante? Tanto, molto più che 7 miseri minuti. Tiro: goal! 2 a 1. Rete. Rete. Rete! 
Corro verso un punto a caso, ma non so quale. Schivo un primo ragazzo scartando di lato, poi ne schivo un altro. Sembro Alberto Tomba ad Albertville. Corro mosso da una gioia irrefrenabile, lasciando dietro di me una lunga scia di anni pesanti, zeppi di angosce, dubbi e frustrazioni. Mi trovo abbracciato ad un tale di cui ignoro il nome. E’ un contatto onesto e sincero, di due sconosciuti che, per una volta nella vita, compiono un gesto fine a se stesso, senza secondi scopi. Improvvisamente, mi sento stanco, come se il peso di questi 7 minuti, si fosse concentrato in un unico lunghissimo momento di felicità.

Reggiana - Siena 2-1: passano gli anni ma la storia si ripete. Cretini eravate nel 1999 e cretini siete ancora. Con il vostro comportamento assurdo, avete fatto ridere tutta Europa. Spero vivamente di non vedervi mai più. Avete girato tutto il giorno per Siena con i brutti colori della vostra bandiera e nessuno vi ha detto niente: a Reggio noi avremmo potuto fare lo stesso? A volte la civiltà non va di pari passo con la latitudine.

Siena - Catania: usciamo dal quarto di finale con la consapevolezza che non è finita finchè non è finita. Avanti un altro, tanto Catania o non Catania, a questo punto sono tutte forti. Esattamente come lo siamo noi. Analogie, cabale e similitudini: se la storia si ripete, ci sarà un motivo, oppure no?

Tutti insieme uniti avanzeremo!


Mirko

2 commenti:

  1. Siamo tutti da Baffo a Tressa e ci prepariamo a salire sul postale che ci porta allo stadio!
    W Michi,W la su'fidanzata Simonetta,W Pane,w il Piddì!
    In culo sempre ai gufi delle lastre,si torna in B alla faccia vostra!!

    Roby di Tressa

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  2. Bel racconto Mirko.........mi sono emozionato!
    Io stavo sistemando lo zaino ed ero girato quando ho sentito l'urlo........rigore.........e non ho avuto la forza di guardare; mi sono girato verso la Curva ed appena ho visto esultare la gente che avevo davanti mi sono accasciato sui seggiolini..........una fatica mentale immane.........bello ma impegnativo vivere la Robur in questo modo!

    Gianluca

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